Il mio racconto che ha recentemente vinto il Concorso letterario nazionale “Raccontami, o Musa…” organizzato dall’Associazione culturale Musamusia.
Posso soltanto aggiungere ancora una volta che mi sento onorata.
Non esiste separazione definitiva
finché esiste il ricordo
Isabel Allende
Perduto amore mio,
non ti ho mai scritto e neanche adesso ti scrivo, tanto sia io che tu sappiamo che sarebbe inutile, ormai.
Ti penso però in forma di lettera, quasi a far finta che io possa davvero spedirla – tra qualche minuto, domani o tra un anno – e tu possa davvero riceverla.
Perché tu, che sei filo invisibile e fischio del treno, ti sei piantato prepotentemente al centro dei miei pensieri, fiore spinoso e arido, e io non ho mai saputo scacciarti. Non ho voluto.
Chiudo gli occhi e ascolto il mio respiro. Sembra normale adesso, un sali e scendi del petto a ritmo lento, morbido. Non durerà. Non può durare, ormai lo so.
Il fischio della caffettiera mi fa girare la testa verso il fornello. Per quasi mezzo secolo il caffè alle quattro del pomeriggio è stato il mio rito quotidiano, fatta eccezione per le volte in cui mi è stato materialmente impossibile. Tu non lo puoi sapere, non ci siamo mai incontrati alle quattro del pomeriggio. Mio marito, invece, quando in quei rarissimi casi mi sentiva lamentare della mancanza del caffè, ogni volta mi diceva che non sapevo fare a meno del superfluo. Tu avresti capito, ma lui no, lui non poteva capire che per me quel caffè non era per niente superfluo, era un appuntamento con me stessa.
Anche al salone, quando si avvicinavano le quattro, non cominciavo a lavorare una nuova testa se prima non procedevo con cura a mettere su la caffettiera, ad aspettare il fischio e poi offrire il caffè anche alle clienti. Infine mi sedevo con la mia tazzina in mano, mi guardavo attorno e con un mezzo sorriso dicevo:
– Mi dovete scusare, ma questi cinque minuti sono per me.
Sembravo serena allora, in quelle lunghe giornate trascorse in piedi, con il parlottio delle donne che acconciavo, con lo sciabordare dell’acqua sulle teste da sciacquare, con il rumore dei phon accesi, con gli specchi nei quali mi sbirciavo passando, quasi di nascosto.
Eppure anche allora, sempre e ogni giorno, il fischio della caffettiera mi ha riportato al fischio di quel treno e a te, disperato amore mio.
– Tornerò, Rosa, giuro che torno e ti porto via.
Ora sono qui, con la mia tazzina in mano, e guardo al di là dei vetri la pioggia cadere. Il vento fischia con tutta la sua forza, sferza e percuote foglie e cartacce, aria e acqua insieme a muovere le cose senza un’apparente direzione. Sono cresciuta in un posto di vento, il suo vigore rumoroso ha accompagnato la mia esistenza e mi mancherebbe, se non lo sentissi arrivare e parlarmi attraverso porte e finestre.
Pochi gesti, poche cose da fare nelle mie giornate. Da tanto tempo sono sola, ancora più sola di come sono sempre stata senza di te. Quel marito a cui non sono mai riuscita a volere bene se n’è andato da anni. La sua non è stata una morte indolore, nemmeno per me. Ho dovuto accudirlo per mesi e mesi, pulirlo e medicarlo toccandolo, io che provavo ripugnanza quando lui mi toccava. L’ho fatto con rassegnazione, per senso del dovere, certo non per pietà.
Del resto la mia intera vita è stato un compiere doveri, anima e corpo anestetizzati per non provare troppo dolore.
– Sorridi, Rosa – mi dicevi – sorridi alla vita e a me.
Ma come sorridere, struggente amore mio?
Chiudo di nuovo gli occhi e ritorno ragazza. Mi vestirono da sposa a diciotto anni, mi portarono all’altare e mi consegnarono a un uomo che conoscevo appena. Bisognava, mi dissero, e ancora oggi non riesco a trovare il senso di quel bisogno. Mia madre non pianse il giorno del mio matrimonio, nessuna commozione da parte sua per me, mai, nemmeno quel giorno. E non piansi io, non durante le nozze né la notte, quando quelli che dovevano essere gesti d’amore furono aggressioni fredde e feroci, un ansimare animale sopra di me, poi più nulla.
I gesti d’amore li conobbi con te, e non furono necessarie parole, non servì raccontarti il vuoto e la desolazione.
– Sorridi, Rosa. Diventi ancora più bella quando sorridi.
Il fischio mi sale leggero dal petto, quasi soltanto un sospiro un po’ più profondo, ma si placa subito. Respiro.
I primi dieci anni di matrimonio furono un continuo accusarmi di essere una buona a nulla, perché figli non ne arrivavano e la colpa era certamente la mia. Me lo ripeteva mio marito, me lo ripeteva mia madre, che morì rivolgendomi con gli occhi lo stesso, duro rimprovero: le donne sono fatte per partorire figli e se figli non ne fanno sono da considerare delle fallite. Irrimediabilmente.
Poi, all’improvviso, avvenne quello che tutti considerarono un miracolo.
Divenni florida e raggiante, i seni pieni, la pancia prominente portata in giro con una fierezza che non mi era mai appartenuta.
Ma quando mio figlio nacque io ero già triste e nessuno riusciva a spiegarsi il perché. Allevai quel bambino con un senso di possesso morboso ed esclusivo, che non ammetteva intromissioni. Fui madre attenta e premurosa, ma il velo di tristezza non scompariva: sorrisi pochi, occhi perduti a guardare lontano, orecchie tese ad aspettare il fischio di un treno.
– Sorridi, Rosa, sorridi e aspettami. Ho giurato e tornerò.
È trascorso tanto di quel tempo ormai, e tu non sei tornato. Io ho creduto ai giuramenti, ho sofferto in silenzio e ho aspettato. Ho visto mio marito morire, mio figlio andarsene lontano. Si fa sentire raramente, forse vuole punirmi per l’amorevole menzogna che neanche conosce.
Ho attraversato una vita intera, il cappotto di loden, le maniche a raglan, il tailleur doppiopetto e le spalline imbottite, i ricami sul corredino di mio figlio, i miei capelli cotonati per la sua prima comunione, la sua partenza senza ritorno con l’aereo – nessun fischio del treno per lui. E poi le conserve di pomodoro e i broccoli in pastella per Natale, la pasta al forno la domenica e la cuccìa il tredici dicembre, ogni anno le stesse cose, ogni anno sempre uguale. E tu non tornavi.
Intanto invecchio. Ho chiuso il salone di parrucchiera, ma mi sono portata con me, nel mio petto, tutti gli odori dei solventi e delle tinte. Ora il mio petto, lo stesso che tu amavi tanto, su cui appoggiavi la testa dopo l’amore, ora questo petto fischia, come il tuo treno e come la mia caffettiera.
Doloroso amore mio, ti ho visto andare via in cerca di fortuna su un treno che ti portava lontano da me. Non ho potuto neanche salutarti, sulla banchina della stazione, non piangere, non agitare fazzoletti. Tu eri la mia consolazione clandestina, da rivelare a tutti con orgoglio quando saresti tornato per portarci via, me e nostro figlio.
Per anni ho camminato sul filo della memoria. Sono stata in bilico, ma quel filo mi ha salvato dalla disperazione. Ho vissuto ricordando la felicità che fu e aspettando quella che doveva venire.
Il fischio di un treno mi ha lacerato il cuore, ma mi ha insegnato il gusto dolce dell’attesa. Il fischio della mia caffettiera, ogni giorno alle quattro del pomeriggio, ha fatto in modo che mi prendessi cura di me. Il fischio del vento, rammentandomi quali erano i miei luoghi, ha impedito che mi perdessi. Il fischio dei miei bronchi, frutto della mia storia, mi ha ricordato che stavo respirando ancora.
Le cose che fischiano sono vive.
Solo stamattina ho saputo che non sei mai tornato perché non potevi. Incidente in fabbrica, a Dusseldorf, appena venti giorni dopo il tuo arrivo da emigrante. Qui non avevi lasciato nessuno oltre me, eri solo come adesso sono sola io, nessuno a darmi tue notizie. Adesso so che quando ti parlavo tu potevi già ascoltarmi, perché eri energia che si muove in ogni luogo, quindi anche accanto a me.
I medici mi hanno detto che quando sentirò nel mio petto un fischio più acuto e lacerante, quando percepirò quel sibilo come il preannunciarsi di uno schianto, vorrà dire che sarà l’ultimo. In quel momento sarò io a tornare da te, assoluto amore mio.
Ma oggi per la prima volta posso dire che sto bene, col mio fischio nel petto, con quello di un treno che non tornerà, con quello del vento di un inverno luminoso, con quello della mia caffettiera alle quattro del pomeriggio per chissà quanti giorni ancora.
Le cose che fischiano sono vive. E finalmente viva mi sento.
Adesso aspettami tu, tenero amore mio. Io non ho fretta di arrivare.