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Io scherzavo


Edward Hopper, “Nighthawks”, particolare

«Ciao, Raffaè»

«E tu chi sei?»

«Ma come, non lo sai? Eppure mi conosci da tanto tempo!»

«Io? Ma vuoi prendermi in giro? Io non ti ho mai visto in vita mia».

«Hai fatto finta di non vedermi, Raffaè, ma io sono stato lo stesso sempre con te».

«Ti dico che non ti conosco».

«Ti ripeto che fai finta, Raffaè. Io sono quella parte di te che hai sempre voluto ignorare. Lo stai facendo anche adesso, ma lo sappiamo tutti e due che sotto sotto sai che esisto, che sono sempre esistito».

«Stai imbrogliando. Io mi conosco benissimo e so per certo che non esiste un altro me. Non ho niente da nascondere io. Quello che sono si vede, sono un uomo tutto d’un pezzo».

«Ti piacerebbe, vero? Eppure qualche volta nella tua vita con me ci hai anche parlato, quando hai avuto qualche dubbio su come ti comportavi, sul male che facevi. Ammettilo, è capitato che tu ti sia guardato allo specchio e abbia visto me».

«Io fare del male? Ma non farmi ridere! Io sono una persona corretta, apprezzata da tutti…»

«Lo so che ti piace pensarlo, ma ti devo deludere. Non è affatto così».

«E come sarebbe, allora?»

«Vediamo, prova a pensare a come ti sei comportato con la tua famiglia».

«La mia famiglia? E cosa avresti da ridire? Ho sempre lavorato, ho dato a mia moglie e ai miei figli una vita più che dignitosa».

«E pensi che questo basti?»

«Certo che basta, e ti aggiungo che sono stato un buon marito e un buon padre. Ho permesso a mia moglie di fare quello che voleva, ovviamente entro certi limiti. Uscire per divertimento senza di me, per esempio, non era una cosa ben fatta. E nemmeno vestirsi in modo provocante; aveva sposato me, non era il caso di provocare altri, non credi? Per quanto riguarda i miei figli, ho permesso loro di studiare, nonostante i sacrifici. Ti sembra poco?»

«Vedi che qualcosa comincia a venire a galla? Tu hai permesso?»

«Ma certo, la responsabilità della famiglia era la mia, era giusto che mi assumessi io il peso di farla andare come si deve. Ho dovuto dare delle regole, ma li ho trattati sempre bene».

«Posso farti una domanda, Raffaè? Che cosa è secondo te la violenza?»

«La violenza… violenza è una parola grossa. È fare male, alzare le mani, ferire, uccidere. Questa è la violenza».

«E qui ti volevo. Costringere gli altri a fare cose che non vogliono o vietare di fare cose che desiderano secondo te che cos’è?»

«Ma che c’entra? Se è per il loro bene…»

«E chi decide qual è il loro bene? Lo decidi tu? La violenza può avere tante sfumature, Raffaè. Guarda, ti faccio un esempio. Quante volte hai detto a tua moglie Sei un’idiota? E quante volte lei hai detto Stai zitta?»

«Sì, vabbè, ma io scherzavo, se se la prendeva era lei che era troppo permalosa»

«Ah sì? E dimmi, se l’avessero fatto con te, con la stessa frequenza con cui l’hai fatto tu, come ti saresti sentito? Solo troppo permaloso?»

«Io scherzavo, avrebbe dovuto essere lei a capire che scherzavo».

«Certo, Raffaè, e scherzavi anche tutte le volte che l’hai tradita, vero? Anche in questo caso mi chiedo come ti saresti sentito tu se l’avesse fatto lei. E invece lei sempre zitta, sempre paziente, sempre al suo posto. Comodo così, no?»

«Ma che paragoni fai, si sa che l’uomo è cacciatore. E che la donna quando tradisce lo fa con sentimento. Per questo se l’avesse fatto lei non so di cosa sarei stato capace».

«Di che cosa, Raffaè? Di ucciderla magari? Allora forse mi vuoi dire che ti è solo mancata l’occasione? La verità te la dico io. Nella tua testa ci sei tu e poi c’è il resto del mondo, compresi tua moglie e i tuoi figli. Prima tu, poi gli altri che hanno sempre avuto meno ragione di te, che hai considerato con meno diritti, una perché donna e gli altri perché piccoli. Hai approfittato del fatto che dipendevano da te. Per questo li hai umiliati e spesso costretti a una vita fatta di soggezione che non avevano scelto. E mi dici che non è violenza anche questa? Non c’è bisogno di lividi, Raffaè, per fare violenza. E non te ne puoi uscire con la storia che scherzavi, perché hai scherzato con la vita degli altri. Io ti vedevo schernire tua moglie, prendere in giro i tuoi figli dicendo loro che erano degli stupidi solo perché non erano come te, e stavo male per te, quindi per noi. Non puoi immaginare la rabbia che mi hai fatto in quei momenti. La sentivi anche tu quella rabbia, ma come al solito la scaricavi su chi avevi vicino. Del resto lo hai sempre detto che non puoi  farci niente, che tratti male le persone a cui vuoi bene. Perché sei un vigliacco, tratti male gli altri per evitare di fare i conti con te stesso. Sappi una cosa, Raffaè. Io, che sono la parte buona di te, non ti stimo. E tu potrai stare bene solo se avrai la mia stima e il mio rispetto. Pensaci, Raffaè».

Anna Burgio

Favola della Grande Meraviglia

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Grande Meraviglia di Viola Ardone, Einaudi 2023

«Irene, vai a lavare i denti che è ora di dormire».

«Un altro po’, mamma».

«Un altro po’ è già passato, domani è lunedì e la sveglia è presto. E poi mi sembra che i tuoi occhi siano già mezzi chiusi. Mi sbaglio?»

Irene se li stropiccia, quegli occhi belli, e non risponde. A malincuore si alza dal divano, prende il pelouche di Titti, lo sistema seduto per bene nell’angolo – è sempre stata una bambina ordinata – e prima di andare in bagno gli dà il bacio della buonanotte.

«Però stasera mi racconti una storia nuova? Proprio tua tua, non che me la leggi».

La ascolto e penso a quando, tra qualche anno, questa voce di campanellino trillante cambierà. Mi sento triste per allora, come se già adesso dovessi prepararmi a elaborare un senso di lutto. E questo non è buono.

Irene lava i dentini come le abbiamo insegnato, per la verità più suo padre che io, con movimenti dall’alto verso il basso e viceversa e mentre lava prova a contare, nonostante lo spazzolino in bocca, per tre volte fino a cinquanta. Anche questo glielo abbiamo insegnato, spiegandole che è il tempo giusto per una buona pulizia. A contare invece ha imparato quasi da sola, non ha ancora quattro anni e sa arrivare fino a cento.

Irene sciacqua la bocca e il viso e poi lo tampona con l’asciugamano, come vede fare a me. Stasera siamo sole, suo padre è partito per due giorni e tornerà domani. Ci manca, ma sappiamo che lui è contento perché è andato a trovare i nonni e poi tornerà. La certezza del tornare è una cosa bella, lo sappiamo.

Nella sua cameretta mia figlia si infila sotto le coperte, mentre io mi chiedo ancora cosa mi posso inventare per accontentare la sua richiesta di una storia nuova. Non sono mai stata brava a inventare io, non ho fantasia.

Irene mi guarda speranzosa.

«Dai mamma, racconta».

Senza alcuna precisa corrispondenza, mi torna in mente Viola Ardone e il suo ultimo libro, Grande Meraviglia, che ho finito di leggere ieri. Non so perché, non è una storia adatta a una bambina, storia di manicomio e di ingiustizie, di infanzie negate e di involontari abbandoni. Eppure non riesco a togliermelo dalla testa, torno sempre lì con i pensieri.

«Sì, comincio», le dico sedendomi accanto a lei, sul bordo del lettino.

«C’era una volta una bimba che si chiamava Elba».

«Che strano nome Elba. Perché si chiamava così? Elba come l’isola?»

Noi abitiamo a Castiglione della Pescaia, l’isola ce l’abbiamo di fronte, quindi è normale che sia la prima cosa a cui Irene pensi.

«No, tesoro, Elba è anche un fiume. Attraversa tutta la Germania e, come tutti i fiumi, arriva al mare».

«Deve essere un fiume molto grande allora, perché tu mi hai detto che la Germania è gigante».

«Sì, il fiume è molto grande, ma la Elba della nostra storia non lo era, anzi era proprio piccola».

«E ce l’aveva una mamma questa Elba?»

Mi torna in mente la bravura di Ardone, la capacità di trasmettere tutto lo struggimento, tutta la vicinanza e poi la lontananza, tutto il dolore di Elba.

«Sì, ce l’aveva», rispondo. «E lei la chiamava Mutti, che vuol dire mamma in tedesco».

«E un papà ce l’aveva?»

Comincio a pentirmi di avere cominciato a raccontare questa storia, e mannaggia a me che non so inventare, altrimenti avrei già dato un’impronta diversa. Devo escogitare qualcosa.

«Sì, Irene, un papà ce l’hanno tutti, anche quando non lo conoscono. Elba il papà ce lo aveva lontano, perché quando lei è nata la mamma viveva in un bosco incantato e una brutta magia le impediva di uscire».

Dai che sei brava e ce la puoi fare, mi dico, hai saputo trasformare il manicomio in un bosco incantato.

« E che cosa faceva questa magia?»

«Trasformava le persone, anche se erano persone buone e tranquille diventavano strane, facevano e dicevano cose che se non fossero state lì non avrebbero né detto né fatto».

«Allora era proprio una strana magia, e poi non capisco perché se erano buone e non facevano niente di male dovevano essere stregate. E poi cosa è successo?»

«La piccola Elba cresceva accanto alla sua Mutti, che le raccontava le storie proprio come faccio io con te. E poi ti ho detto che nel bosco c’erano tante persone buone e la bambina giocava con loro. Lei amava le rime e le scriveva in un suo quadernino segreto. Tu sai cosa sono le rime?»

«Lo so, lo so» risponde Irene sbadigliando. «Come gatto e matto, giusto?»

«Bravissima, proprio come gatto e matto», rispondo io, sorprendendomi del fatto che, tra tante parole, mia figlia ne abbia beccate due che sono nel libro.

«Inventando le rime Elba non si annoiava mai. Pure se lei non era sotto incantesimo e poteva uscire dal bosco non voleva farlo, anche perché avrebbe dovuto lasciare la sua Mutti».

«E poi cosa è successo?»

«E poi un giorno la Mutti scomparve e la piccola Elba era disperata. Ma arrivò un Mago che diceva che tutti potevano uscire dal bosco, perché le regole erano cambiate e l’incantesimo non valeva più. Allora quel Mago, che si chiamava Meraviglia, prese Elba e la portò con sé fuori dal bosco incantato, perché voleva che la vita della bambina fosse felice in mezzo a tutti i bambini del mondo».

Adesso mentre parlo non guardo Irene, fisso fuori dalla finestra aspettando il momento in cui lei mi fermerà chiedendomi che fine abbia fatto la Mutti.

Fisso fuori dalla finestra e penso. Penso a quanto è fortunata mia figlia, molto più fortunata di Elba e di tanti bambini che, anche se non hanno vissuto il manicomio, hanno conosciuto il dolore che i bambini non dovrebbero mai conoscere. Penso a quanto sono fortunata io, che non ho rischiato di finire in manicomio solo per quello che ero, per come la pensavo e per come mi comportavo. Penso a mia madre, assistente sociale che i mezzo a rivoluzioni sociali come la legge Basaglia si è formata, che al Welfare State ci ha creduto e adesso è oppressa, nel suo lavoro che tanto ha amato, dalla burocratizzazione che ingabbia anche le relazioni. Penso a quanto sia brava Viola Ardone a porre l’accento su tematiche tanto importanti quanto dimenticate, perché il diverso da sé, se pensiamo come sé alla società, fa tanta di quella paura da volerlo tenere lontano dagli occhi e dal cuore.

Mi accorgo poi che sto pensando da qualche minuto e Irene non mi ha interrotto. C’è silenzio. Sposto lo sguardo sulla mia bambina e la vedo che dorme, con quella increspatura sulle labbra che ha quando è serena e che assomiglia tanto a un sorriso. La osservo dormire e ancora una volta penso che siamo fortunate, finché la fortuna ci assiste.

Domani lei vorrà sapere come continua la storia e io desidererò avere accanto una Viola Ardone che sappia modellare le parole per non turbare la mia piccola.

Ma vado a dormire tranquilla, perché so che domani il padre di Irene mi aiuterà a trovare un epilogo risarcitorio per la Mutti e un lieto fine per tutta la favola.

Anna Burgio

Notizie sull’autrice e sul libro qui e qui.

Assammaratu

Inserito il

Immagine di wirestock su Freepik

Cesare Pavese era assammarato e si buscò una bronchite, pensa Nino mentre si guarda attorno per cercare un qualche riparo. Dal pensiero di Cesare a quello di Alice il passo è breve. Non ha mai capito granché di quello che canta De Gregori, spesso è troppo ermetico per lui, ma le sue canzoni lo hanno in ogni caso affascinato, sempre. È poesia, ha pensato, e la poesia capita che non si capisca.

Cesare perduto nella pioggia sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina. Nino molto più banalmente è uscito di casa per portare il cane a pisciare. Gli torna in mente un periodo, quel periodo, quell’adolescenza torbida e confusa, per lui come per tanti. Lui che era il Nino della Leva calcistica del ’68, ma non lo sapeva. Lui pensava di sapere decifrare i suoi timori, la sua timidezza che trasformava in stupida spavalderia, perché non riusciva a trovare altro modo per sopravvivere in quella giungla che era il mondo. E dopo tanti anni alla fine gli è rimasto solo il cane.

Il cane è quell’essere rimasto senza nome che solo nella sua testa lui chiama Masino. Senza nome perché disconosciuto, non voluto e non amato che da lui da quando è arrivato in casa sua. Nino non sta pensando ai suoi figli, che ormai sono partiti nel mondo come soldati (eccolo che torna, De Gregori), a cui non importa niente di quello che accade nella sua vita. No, il cane è stato non voluto da sua moglie, ed è stato ed è occasione di battaglie in cui si scontrano per non scontrarsi in altro.

Nonostante il cappuccio della felpa calcato sulla testa fino a coprirgli gli occhi, Nino sente l’acqua che comincia a gocciolargli tra i capelli, e dire che ne ha ancora tanti, e a penetrare nel cuoio capelluto. Si sta assammarrando. Quando è uscito di casa di casa era nuvoloso, ma non tanto da far presagire pioggia. Anche per questo, seguendo solo i suoi pensieri, si era allontanato dal centro abitato. Lui e Luisa vivono alla periferia del paese, proprio al confine con la campagna circostante. E in campagna lui si è messo a camminare , alle cinque di pomeriggio di questo mese di ottobre ancora quasi estivo. Ha lasciato Masino libero di scegliere la strada, lo ha semplicemente seguito e dopo un po’ ha perso la cognizione dello spazio e del tempo. Certo, sapeva come ritornare a casa, ma si era allontanato di molto, si stava facendo buio e attorno non c’era traccia di uomini né di abitazioni. E aveva cominciato a piovere.

Da quando è andato in pensione, a luglio, la situazione a casa si è complicata. All’inizio era sembrato un periodo come gli altri, come quando in estate andava in ferie. Anche in vacanza ci sono abitudini che si ripetono e che sanno essere rassicuranti. Ma poi è arrivato settembre e lui ha dovuto fare i conti con la sua vita vuota, il suo niente da fare se non badare al cane. Quando si era impuntato per farlo entrare in casa Luisa era stata chiara: se ne sarebbe dovuto occupare esclusivamente lui, lei non voleva neanche percepire la presenza dell’animale e guai se fosse salito sul divano o se avesse sporcato. In quel caso si sarebbero ritrovati in un attimo fuori tutti e due, uomo e cane.

Nino aveva accettato perché per lui era in ogni caso una conquista, era la priva volta che passava una sua decisione. E meno male perché adesso, senza più lavoro, senza interessi e senza amici, se non avesse avuto Masino sarebbe morto di solitudine. Luisa invece continuava la sua vita di sempre, badava alla casa, incontrava le amiche, aveva sempre un parrucchiere o un negozio da andare a visitare.

La pioggia ora gli gocciola dal bordo del cappuccio, dalle ciglia, dal naso e dalle mani. Nino quasi non se ne accorge, pensa a Masino e a tutta l’acqua che lo sta inzuppando. Solo dopo riflette su quanto questa pioggia possa fare male a lui e in questo vede un’opportunità. Spera in una bronchite, certo non mortale, ma che si trasformi magari in una polmonite e gli dia da contrastare per qualche tempo. Forse Luisa potrebbe provare un po’ di tenerezza nei suoi confronti e lui avrebbe qualcosa di avventuroso di cui sentirsi fiero.

I fari di una macchina si avvicinano e, quando si fermano accanto a lui, Luisa abbassa il finestrino. Come ha fatto a trovarlo? Domanda inutile. Lei può tutto.

«Sali, incapace di un uomo» gli dice. «Si può sapere cosa ti è passato per la testa? Tutto per questo stupido cane! Che ti venisse una bronchite così impari!».

La bronchite non gli verrà. Questa inutile assammaratura gli procurerà soltanto qualche starnuto. Ma non importa, spera solo che non ci siano conseguenze per il suo Masino.

Anna Burgio

Foto di Diana Cocco – contest Dizy lavatoio.

Assammarari

Quando mi è venuta l’idea di utilizzare parole tradizionali siciliane intorno alle quali far ruotare dei racconti, la prima che mi si è presentata – e non mi ha più lasciato – è stata assammarari, che nel mio dialetto letteralmente significa immergere i panni in acqua, per farli imbevere in una sorta di prelavaggio prima di sottoporli a insaponatura. Da lì è discesa poi l’accezione più comune, cioè inzuppare o essere inzuppato, con specifico riferimento a persone o cose sotto la pioggia.

Scegliendo d’istinto questo termine, non immaginavo di poter trovare tante difficoltà nella ricostruzione etimologica della sua origine.

Non ho studi specialistici di linguistica o glottologia, la mia ricerca dell’etimologia delle parole deriva soltanto da una grande curiosità, simile a quella che hanno i bambini quando rompono i giocattoli per capire come sono fatti dentro. Con la stessa giocosa ingenuità, quindi, mi sono avvalsa, quali strumenti di ricerca, solo di quanto si trova sul web e di alcuni dizionari specialistici che ho modo di consultare.

Per quanto riguarda questa prima parola, assammarari – tanto diffusa quanto di provenienza incerta – la prima cosa che ho scoperto è che non è peculiare della lingua siciliana, bensì diffusa nel Meridione d’Italia, almeno in Campania e in Calabria.

Riguardo all’etimologia e di conseguenza all’origine geografica, le opinioni si diversificano un po’.

Secondo Reinhart Dozy, orientalista olandese vissuto in pieno Ottocento, il termine potrebbe avere radice magrebina, derivando dalla parola algerina shammakh, che significa bagnato. Ciò sarebbe avvalorato dal fatto che un sinonimo di assammarari in siciliano è sciammarari.

Anche Alberto Varvaro, linguista palermitano, autore del Dizionario storico-etimologico del siciliano, si riferirebbe al termine arabo sammah (pronuncia shammakh), corrispondente a mettere a mollo.

Francesco D’Ascoli, a cui dobbiamo il Dizionario etimologico napoletano, si riferirebbe invece al termine arabo samar, che dovrebbe significare latte annacquato.

Il Dizionario etimologico della lingua siciliana, di Luigi Milanesi, che richiama anche il già citato sciammarari, rimanda a un’origine spagnola da amarar, inzuppare. In giro per il web ho trovato uguale ipotesi di provenienza, con amarar dal castigliano e  aixalavar dal catalano.

Da qualche parte, infine, ho riscontrato che la parola assammmarari avrebbe la stessa radice di zammatiari (sguazzare nell’acqua), derivato da zaman, termine arabo che significherebbe intridere, congiungere, coagulare.

Considerato che le mie ricerche sono principalmente dovute a un divertissement, ogni precisazione o correzione è più che gradita.

Dimmi di più di Miden

Inserito il

miden-modificato

Miden di Veronica Raimo, Mondadori, 2018

«Che bella luce c’è oggi», disse lui. «È proprio un mattino cristallino».

Stavano facendo colazione seduti al tavolo della cucina, proprio davanti alla grande vetrata.

«È un mattino cristallino come tanti a Miden», disse lei.

«Wow! Se mi citi la quarta di copertina vuol dire che lo hai letto… Finalmente hai letto Miden!» Il tono di lui era tra lo stupito e il divertito e la sua domanda non aspettava risposta. Sì, di certo lei si era finalmente decisa a leggere il libro che era uscito da anni e che, nonostante i continui incoraggiamenti di lui, si era sempre rifiutata di cominciare.

«Dimmi cosa ne pensi, forza!» continuò.

«Ti dirò,» rispose lei «lo sai che di Veronica Raimo avevo letto solo Niente di vero e devo confessare che questo mi è piaciuto di più. Ma, considerato quanto me lo hai decantato per mesi, mi aspettavo qualcosa di più straordinario».

«Ok, parliamone. Che cosa non ti è piaciuto?»

«Invece facciamo al contrario. Tu mi hai sempre detto che era bellissimo, ma non hai mai voluto spiegarmi il perché, aspettando che lo leggessi. Ecco, adesso che l’ho letto fammi la tua brava recensione. Poi parlo io».

«D’accordo, allora faccio le cose per bene e parto dall’inizio. Vuoi una recensione? E recensione sia!» disse lui con tono serio. Poi si sistemò gli occhiali sul naso, sollevò le spalle, si schiarì la voce e cominciò.

«Miden è un romanzo di Veronica Raimo pubblicato nel 2018 per Mondadori…»

All’improvviso scoppiò a ridere.

«Ma dai, non ce la faccio a parlare così di un libro, non è cosa mia. Ti dico invece che uno degli aspetti  che mi piace di più è l’idea di partenza, proprio nel senso del modo in cui comincia la storia, di quelle prime righe che si aprono subito con una gravidanza e con una lei e un lui che Raimo chiamerà per tutto il libro la compagna e il compagno, quasi a volerli spersonalizzare e quindi renderli universali. Il compagno e la compagna vivono da poco tempo a Miden – lui da un po’ di più – e aspettano un figlio. Il libro si apre con la promessa di cose buone, anche perché Miden sembra un contesto votato alla felicità. Invece irrompe nella scena – e nella casa dei due e nella vita della compagna – la ragazza, che asserisce di essere stata violentata due anni prima dal compagno, suo professore all’Accademia. Il cambio di rotta è precoce e d’impatto e da qui si dipana la storia».

«Ehi, tu dici di no, ma sei davvero bravo. Davvero ti potresti mettere a scrivere recensioni» lo fermò lei.

Lui stava aspettando quell’interruzione, la conosceva da una vita e sapeva bene quanta poca pazienza avesse e quanto fremesse e non riuscisse a stare ad ascoltare se qualcosa le frullava per la testa con l’urgenza di uscire fuori in forma di parola.

«Però ti devo contestare un termine che hai scelto» continuò lei. «Che la vicenda si dipani mi pare proprio
un’esagerazione. Allora te la faccio subito la prima critica. Ho trovato la struttura un po’ noiosa, e il compagno e la compagna, e la compagna e il compagno… A un certo punto mentre leggi sei tanto infilato nel loop che il contenuto non ti intriga più».

«Sarà» disse lui «ma a me ha fatto l’effetto contrario. A me proprio l’alternanza ha mantenuto alta l’attenzione. Gli stessi eventi raccontati da due punti di vista diversi, con tutto quello che ne deriva in termini di descrizione di epoca e spazi. C’è tensione, capisci? È un racconto che ti tiene sul filo, ti costringe a cambiare continuamente punto di vista e il contenuto ti interessa eccome, perché hai un contenuto elevato alla seconda, per così dire».

«Dici?» chiese lei perplessa. Si fidava dei giudizi di lui, quando parlavano di letteratura non c’era proprio storia, di solito lei lo ascoltava ammirata. Ma stavolta si era impuntata, la pensava diversamente e voleva affermarlo.

«Però…» riprese a dire. «Sempre il compagno e la compagna, la compagna e il compagno. E la ragazza? E la ragazza? Che mi dici della ragazza? Non ha diritto a un suo punto di vista lei? Alla fine il problema è principalmente il suo, dovrebbe essere lei la protagonista della storia. Anche se ho trovato fastidioso leggere ancora un altro testo derivato da #metoo. È vero che la scrittura accende la consapevolezza e sensibilizza, ma stiamo sempre parlando di un fenomeno hollywoodiano con le sue luci e le sue ombre, non dimentichiamolo». 

«Su questo ti sbagli. Raimo ha raccontato in un’intervista che l’idea le è venuta non da #metoo, e anche se fosse stato non ci sarebbe stato niente di male, ma dall’accusa di Maria Schneider a Bernardo Bertolucci riguardo alla famosa scena del burro in Ultimo tango a Parigi. Maria dichiarò tantissimi anni dopo l’uscita del film di essersi sentita violentata – e non importa adesso se per la scena in sé o per non essere stata informata dell’uso del burro. Ecco vedi, questo è il punto. Raimo non pone l’accento sulla violenza ma sulla possibilità della consapevolezza retroattiva. Per questo la ragazza non ha bisogno di parlare, non è il suo subire la violenza il punto, quanto piuttosto se sia possibile comprendere dopo un torto subito prima, quando ci si credeva consenzienti. E questo se ci pensi può essere applicato a tutto, non solo alle violenze e ai soprusi, ma anche alla quotidianità. Quante volte ti sei accorta troppo tardi che una scelta fatta non era davvero tua?»

Lei lo guardò con un misto tra invidia e orgoglio. Quante cose sapeva! Era anche per questo che l’amava così tanto.

«Non mi convinci» disse lei «ma ti prometto che ci penserò. Magari acquisirò una consapevolezza retroattiva» E sorrise.

Lui pensò che era bellissima quando sorrideva. Poi pensò che era bella sempre, perché aveva una luce dentro che proveniva da un’anima composta di scaglie di vetro sottile, perciò trasparente e limpida. Era anche per questo che l’amava così tanto.

«E che mi dici della società, della sua atmosfera? L’ho trovata fin troppo rarefatta, quasi asettica e di conseguenza asfissiante, quasi» proseguì lei. «Io morirei in un mondo così».

«Vabbè, il fatto che Raimo ti presenti questo mondo non significa che lo condivida. E il fatto che ti sembri asfissiante non significa che non debba essere rappresentato. In ogni caso secondo me viene mostrata in modalità distopica l’annosa questione della vita di modello scandinavo, con il top dei servizi e del benessere ma con una sorta di regolamentazione esasperata».

«Al diavolo il modello scandinavo!» Le guance di lei si erano colorate di rosa, forse perché si era accalorata nel discorso o forse perché adesso il sole picchiava direttamente sul suo viso.

«Come può essere felice una società soggetta a regole ferree che ti imprigionano anche i sentimenti? E poi io sento puzza di ipocrisia anche da lontano, ecco. Che senso hanno i termini perpetratore e subente? Uno stupratore è uno stupratore e se vogliamo affrontare la questione della violenza dobbiamo chiamare le cose con il loro vero nome».

«Ma guarda che proprio questo fa Raimo, pone il problema. Ti mostra una possibile soluzione che magari
soluzione non è, ma ti costringe a rifletterci su. E come vedi anche tu ci stai riflettendo».

«Bene, ci sto riflettendo. Ma io preferisco di gran lunga un altro tipo di società, con tutte le sue contraddizioni. Hai presente certi paesini con i vicoli stretti e tortuosi, e le case antiche dalle cui finestre aperte si intravedono scorci che raccontano di polvere e di mobili tarlati? Anche quella è una vita che attanaglia dentro schemi, dentro gabbie di cortili, di vicinato, di chiacchiericcio e di dita alzate per giudicare. Ma io lo trovo meno sterile, ecco, ci vedo più anima».

«È un altro tipo di vita», affermò lui. «Siamo esseri sociali e in qualche modo ci dobbiamo organizzare. Poi c’è l’utopia, ma quella è un’altra storia». Poi si alzò e cominciò a sparecchiare.

«Preparo un altro caffè», disse infine.

«Sai che ti dico? Alla fine è stata una lettura interessante, anche se mantengo tutte le mie perplessità. Però di una cosa sono sicura: il finale è un capolavoro».

E si alzò anche lei.

Anna  Burgio

Approfondimenti sull’autrice e sul libro qui e qui.

Le cose che fischiano sono vive

Inserito il

tazza di caffè

Il mio racconto che ha recentemente vinto il Concorso letterario nazionale “Raccontami, o Musa…” organizzato dall’Associazione culturale Musamusia.
Posso soltanto aggiungere ancora una volta che mi sento onorata.

Non esiste separazione definitiva
finché esiste il ricordo
Isabel Allende

Perduto amore mio,
non ti ho mai scritto e neanche adesso ti scrivo, tanto sia io che tu sappiamo che sarebbe inutile, ormai.
Ti penso però in forma di lettera, quasi a far finta che io possa davvero spedirla –  tra qualche minuto, domani o tra un anno –  e tu possa davvero riceverla.
Perché tu, che sei filo invisibile e fischio del treno, ti sei piantato prepotentemente al centro dei miei pensieri, fiore spinoso e arido, e io non ho mai saputo scacciarti. Non ho voluto.
Chiudo gli occhi e ascolto il mio respiro. Sembra normale adesso, un sali e scendi del petto a ritmo lento, morbido. Non durerà. Non può durare, ormai lo so.
Il fischio della caffettiera mi fa girare la testa verso il fornello. Per quasi mezzo secolo il caffè alle quattro del pomeriggio è stato il mio rito quotidiano, fatta eccezione per le volte in cui mi è stato materialmente impossibile. Tu non lo puoi sapere, non ci siamo mai incontrati alle quattro del pomeriggio. Mio marito, invece, quando in quei rarissimi casi mi sentiva lamentare della mancanza del caffè, ogni volta mi diceva che non sapevo fare a meno del superfluo. Tu avresti capito, ma lui no, lui non poteva capire che per me quel caffè non era per niente superfluo, era un appuntamento con me stessa.
Anche al salone, quando si avvicinavano le quattro, non cominciavo a lavorare una nuova testa se prima non procedevo con cura a mettere su la caffettiera, ad aspettare il fischio e poi offrire il caffè anche alle clienti. Infine mi sedevo con la mia tazzina in mano, mi guardavo attorno e con un mezzo sorriso dicevo:
– Mi dovete scusare, ma questi cinque minuti sono per me.
Sembravo serena allora, in quelle lunghe giornate trascorse in piedi, con il parlottio delle donne che acconciavo, con lo sciabordare dell’acqua sulle teste da sciacquare, con il rumore dei phon accesi, con gli specchi nei quali mi sbirciavo passando, quasi di nascosto.
Eppure anche allora, sempre e ogni giorno, il fischio della caffettiera mi ha riportato al fischio di quel treno e a te, disperato amore mio.

– Tornerò, Rosa, giuro che torno e ti porto via.

Ora sono qui, con la mia tazzina in mano, e guardo al di là dei vetri la pioggia cadere. Il vento fischia con tutta la sua forza, sferza e percuote foglie e cartacce, aria e acqua insieme a muovere le cose senza un’apparente direzione. Sono cresciuta in un posto di vento, il suo vigore rumoroso ha accompagnato la mia esistenza e mi mancherebbe, se non lo sentissi arrivare e parlarmi attraverso porte e finestre.
Pochi gesti, poche cose da fare nelle mie giornate. Da tanto tempo sono sola, ancora più sola di come sono sempre stata senza di te. Quel marito a cui non sono mai riuscita a volere bene se n’è andato da anni. La sua non è stata una morte indolore, nemmeno per me. Ho dovuto accudirlo per mesi e mesi, pulirlo e medicarlo toccandolo, io che provavo ripugnanza quando lui mi toccava. L’ho fatto con rassegnazione, per senso del dovere, certo non per pietà.
Del resto la mia intera vita è stato un compiere doveri, anima e corpo anestetizzati per non provare troppo dolore.

– Sorridi, Rosa – mi dicevi – sorridi alla vita e a me.

Ma come sorridere, struggente amore mio?
Chiudo di nuovo gli occhi e ritorno ragazza. Mi vestirono da sposa a diciotto anni, mi portarono all’altare e mi consegnarono a un uomo che conoscevo appena. Bisognava, mi dissero, e ancora oggi non riesco a trovare il senso di quel bisogno. Mia madre non pianse il giorno del mio matrimonio, nessuna commozione da parte sua per me, mai, nemmeno quel giorno. E non piansi io, non durante le nozze né la notte, quando quelli che dovevano essere gesti d’amore furono aggressioni fredde e feroci, un ansimare animale sopra di me, poi più nulla.
I gesti d’amore li conobbi con te, e non furono necessarie parole, non servì raccontarti il vuoto e la desolazione.

– Sorridi, Rosa. Diventi ancora più bella quando sorridi.

Il fischio mi sale leggero dal petto, quasi soltanto un sospiro un po’ più profondo, ma si placa subito. Respiro.
I primi dieci anni di matrimonio furono un continuo accusarmi di essere una buona a nulla, perché figli non ne arrivavano e la colpa era certamente la mia. Me lo ripeteva mio marito, me lo ripeteva mia madre, che morì rivolgendomi con gli occhi lo stesso, duro rimprovero: le donne sono fatte per partorire figli e se figli non ne fanno sono da considerare delle fallite. Irrimediabilmente.
Poi, all’improvviso, avvenne quello che tutti considerarono un miracolo.
Divenni florida e raggiante, i seni pieni, la pancia prominente portata in giro con una fierezza che non mi era mai appartenuta.
Ma quando mio figlio nacque io ero già triste e nessuno riusciva a spiegarsi il perché. Allevai quel bambino con un senso di possesso morboso ed esclusivo, che non ammetteva intromissioni. Fui madre attenta e premurosa, ma il velo di tristezza non scompariva: sorrisi pochi, occhi perduti a guardare lontano, orecchie tese ad aspettare il fischio di un treno.

– Sorridi, Rosa, sorridi e aspettami. Ho giurato e tornerò.

È trascorso tanto di quel tempo ormai, e tu non sei tornato. Io ho creduto ai giuramenti, ho sofferto in silenzio e ho aspettato. Ho visto mio marito morire, mio figlio andarsene lontano. Si fa sentire raramente, forse vuole punirmi per l’amorevole menzogna che neanche conosce.
Ho attraversato una vita intera, il cappotto di loden, le maniche a raglan, il tailleur doppiopetto e le spalline imbottite, i ricami sul corredino di mio figlio, i miei capelli cotonati per la sua prima comunione, la sua partenza senza ritorno con l’aereo – nessun fischio del treno per lui. E poi le conserve di pomodoro e i broccoli in pastella per Natale, la pasta al forno la domenica e la cuccìa il tredici dicembre, ogni anno le stesse cose, ogni anno sempre uguale. E tu non tornavi.
Intanto invecchio. Ho chiuso il salone di parrucchiera, ma mi sono portata con me, nel mio petto, tutti gli odori dei solventi e delle tinte. Ora il mio petto, lo stesso che tu amavi tanto, su cui appoggiavi la testa dopo l’amore, ora questo petto fischia, come il tuo treno e come la mia caffettiera.
Doloroso amore mio, ti ho visto andare via in cerca di fortuna su un treno che ti portava lontano da me. Non ho potuto neanche salutarti, sulla banchina della stazione, non piangere, non agitare fazzoletti. Tu eri la mia consolazione clandestina, da rivelare a tutti con orgoglio quando saresti tornato per portarci via, me e nostro figlio.
Per anni ho camminato sul filo della memoria. Sono stata in bilico, ma quel filo mi ha salvato dalla disperazione. Ho vissuto ricordando la felicità che fu e aspettando quella che doveva venire.
Il fischio di un treno mi ha lacerato il cuore, ma mi ha insegnato il gusto dolce dell’attesa. Il fischio della mia caffettiera, ogni giorno alle quattro del pomeriggio, ha fatto in modo che mi prendessi cura di me. Il fischio del vento, rammentandomi quali erano i miei luoghi, ha impedito che mi perdessi. Il fischio dei miei bronchi, frutto della mia storia,  mi ha ricordato che stavo respirando ancora.
Le cose che fischiano sono vive.
Solo stamattina ho saputo che non sei mai tornato perché non potevi. Incidente in fabbrica, a Dusseldorf, appena venti giorni dopo il tuo arrivo da emigrante. Qui non avevi lasciato nessuno oltre me, eri solo come adesso sono sola io, nessuno a darmi tue notizie. Adesso so che quando ti parlavo tu potevi già ascoltarmi, perché eri energia che si muove in ogni luogo, quindi anche accanto a me.
I medici mi hanno detto che quando sentirò nel mio petto un fischio più acuto e lacerante, quando percepirò quel sibilo come il preannunciarsi di uno schianto, vorrà dire che sarà l’ultimo. In quel momento sarò io a tornare da te, assoluto amore mio.
Ma oggi per la prima volta posso dire che sto bene, col mio fischio nel petto, con quello di un treno che non tornerà, con quello del vento di un inverno luminoso, con quello della mia caffettiera alle quattro del pomeriggio per chissà quanti giorni ancora.
Le cose che fischiano sono vive. E finalmente viva mi sento.
Adesso aspettami tu, tenero amore mio. Io non ho fretta di arrivare.

Wuhan, Jiayou

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La notizia di ieri riguarda un uomo che, colpito da infarto per le strade di Wuhan, non è stato soccorso da nessuno ed è stato lasciato da solo, a morire. Questo episodio fa il paio con un altro fenomeno che, al momento è quello che mi ha colpito di più di tutta la storia del coronavirus. Prima un’intera città, poi un’intera regione trasformata in un enorme lazzaretto, in un isolamento totale in cui vuoto e silenzio diventano i segni distintivi.  Strade deserte, milioni di persone chiuse in casa e panico, panico dappertutto.  Tutto racconta di isolamento, i voli sospesi, i cordoni sanitari, le mascherine, i locali boicottati, la quarantena.
La Cina sta vivendo la quarantena più grande della storia. Eppure le fonti scientifiche ci rassicurano sul fatto che l’aggressività del virus non è particolarmente alta, la percentuale di mortalità neanche, e tutto sembra dirci che abbiamo visto di molto peggio, nella storia della nostra umanità. Tutto questo non basta a tranquillizzarci. Ci chiediamo che cosa ci stanno nascondendo, quale disegno a noi ignoto ci sia dietro, o anche quale complotto. Non conosciamo ancora la gravità della situazione, ma la temiamo. Allarme non è sinonimo di allarmismo. Abbiamo reagito come chi non aspetta altro che il peggio e suona la sirena d’allarme prima ancora che il pericolo dia le sue vere avvisaglie. Abbiamo reagito come se tutti non stessimo aspettando altro che la fine del mondo. Dicono che sia normale, in tempi di decadenza. Abbiamo paura, ma la paura separa e di ulteriori separazioni certo non abbiamo bisogno. Non abbiamo proprio bisogno di interrompere quei brandelli di comunicazione umana che siamo riusciti a mantenere, in un’epoca in cui la parola d’ordine sembra diffidare, e poi difendersi, e se del caso aggredire per garantirsi una sicurezza personale ipoteticamente minacciata.

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La parola quarantena non mi è mai piaciuta. Scopro adesso, approfondendo l’argomento, che un suo sinonimo è il termine contumacia. Non l’avrei mai detto. Il contumace è, nell’accezione comune e diffusa, colui che non si presenta a processo. E in effetti l’origine della parola corrisponde, perché contumax significherebbe letteralmente recalcitrante, riottoso. Ma anche assente. La quarantena rende le persone assenti, non soltanto fisicamente. Li esclude dal mondo e, per quanto sia una misura necessaria, non smette di mettermi tristezza. Sarà perché da bambina, a causa del sospetto di una malattia infettiva che poi non avevo, ho trascorso diversi giorni in isolamento in un reparto d’ospedale e non ho mai dimenticato la sensazione di essere tagliata fuori dal mondo. Sarà che da adulta il cancro mi ha fatto vivere – insieme alla grande vicinanza delle persone amiche – anche la distanza e il freddo distacco di chi aveva paura di me. Il cancro non è infettivo, ma ho incontrato persone che avevano paura del contagio. Il coronavirus non è particolarmente aggressivo, ma non abbiamo perso un attimo ad alzare muri e costruire barricate.
Se la precauzione e l’allerta salvano le vite, il panico e la psicosi uccidono ogni rapporto umano.  Per questo guardo con tenerezza amara agli abitanti di Wuhan, che non rinunciano a cercare un contatto e che combattono la solitudine forzata incitandosi reciprocamente alla speranza e al coraggio con le loro grida da dietro le finestre chiuse.

Wuhan, Jiayou. Forza, Wuhan, gridano. So già da adesso che queste sono le parole che resteranno nella mia memoria quando tutto il marasma sarà passato. Perchè passerà. Magari per l’apocalisse dobbiamo aspettare ancora un po’.

Memoria (Parole che si dicono)

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Memoria (Parole che si dicono)

IMG_20200127_183137Recita Treccani:
Memoria (dal latino memoria, der. di memor-memoris “memore”). In generale, la capacità, comune a molti organismi, di conservare traccia più  o meno completa e duratura degli stimoli esterni sperimentati e delle relative risposte.
Io non riesco a disgiungere la parola memoria dalla parola esperienza, e non riesco a disgiungere la parola esperienza dalla parola intelligenza. Se è vero che l’intelligenza è la capacità di usare l’esperienza pregressa per non ricommettere gli stessi errori e se è vero che l’esperienza è il trattenere memoria dell’accaduto, allora non si dovrebbe usare il termine memoria con troppa superficialità.
A volte con superficialità ricordiamo lo sterminio degli ebrei, dimentichiamo di ricordare lo sterminio degli armeni, dimentichiamo del tutto di vedere stermini contemporanei, provocati da guerre o naufragi.
Se non usiamo la parola memoria con superficialità, se riempiamo le parole di significato, forse riusciamo a evitare che diventino slogan modaioli, deleteri e appiattenti.

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Raimondo Moncada

Stasera ho ascoltato Raimondo Moncada, valente scrittore e attore, nonché mio caro amico, recitare un suo monologo nel quale ipotizzava che cosa si potrebbe provare se, di punto in bianco, noi siciliani (ma ognuno può sostituire i miei conterranei con la categoria che preferisce) vedessimo violate le nostre case e le nostre cose, i nostri cari e i nostri corpi in nome non si sa di cosa. Senza motivo, senza scopo, senza senso.
L’intensità dell’interpretazione di Moncada mi ha fatto percepire direttamente sulla mia pelle l’enormità dell’orrore, il suo potere distruttivo e il fatto che nessuno di noi è esente dall’esserne vittima. Perciò mi sono tornate in mente le parole che riporto qui sotto e che, benché usate e quasi abusate, non dovremmo finire mai di leggere e di fare nostre.
«Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare»

Attribuite a Bertolt Brecht

oppure

«Prima vennero per i socialisti, e io non dissi niente, perché non ero socialista.
Poi vennero per i sindacalisti, e io non dissi niente, perché non ero un sindacalista.
Poi vennero per gli ebrei, e io non dissi niente, perché non ero ebreo.
Poi vennero per me. E non era rimasto nessuno a parlare per me».

Martin Niemöller.

Cambando l’ordine dei bersagli il risultato non cambia.

 

Di schiena (In memoria di Jeanne Hébuterne)

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Ritratto di Jeanne Hébuterne – Silvia Conflitto, 2017

Dicono che quando furono celebrati i funerali di Modigliani ci fosse una bellissima giornata di sole. Nonostante si fosse in gennaio. Nonostante si fosse a Parigi.
Era il 27 gennaio del 1920, e la tragedia si era ormai consumata del tutto. Tre giorni prima, la notizia della morte di Amedeo aveva raggiunto Jeanne Hébuterne nella loro casa/atelier, in rue de la Grande Chaumière. La ragazza era quasi al nono mese di gravidanza, era già stato prenotato per lei un posto nella clinica presso la quale avrebbe dovuto partorire. Leopold Zborowski cercò di convincerla a ricoverarsi immediatamente, ma fu inutile. Fu fatta quindi rifugiare, per quella notte, in una camera d’albergo  in rue del la Seine. Dicono che la cameriera, la mattina dopo, avesse trovato un coltello sotto il cuscino.
Quella mattina, domenica 25 gennaio, Jeannette venne accompagnata presso la camera mortuaria per vedere per l’ultima volta il suo Dedo. Con lei c’era suo padre, che in seguito la riporto con sé a casa, in quella casa di rue Amyot che non l’aveva più accolta da quando, appena diciassettenne, aveva scelto di vivere accanto a quell’artista italiano, ebreo e squattrinato, malato e alcolista, oltre che molto più grande di lei.  In quella casa, la casa della sua infanzia, Jeanne aspettò pazientemente che tutto intorno fosse silenzio e all’alba aprì la finestra del quinto piano del numero 8 bis di rue Amyot e si lasciò andare. Erano le tre del mattino del 26 gennaio 1920. Jeanne si lanciò nel vuoto di schiena. Forse suo figlio scalciava, mentre lei si alzava dal letto, mentre apriva la finestra sull’aria gelida della Parigi invernale, mentre saliva sul davanzale. Forse averlo percepito vivo dentro di sé le avrà fatto venire voglia di proteggerlo, mentre si lasciava andare: avrà incrociato le mani sul ventre, stringendo forte per far sentire a quel figlio il meno possibile di ciò che stava accadendo; e si sarà abbandonata all’indietro nella speranza che fosse lei la prima a toccare il suolo. Oppure si lanciò di schiena soltanto per non vedere il vuoto. Oppure per girare – in segno di ultima disperata e silenziosa protesa – le spalle al mondo e alla vita che così male l’aveva trattata.

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Jeanne Hébuterne

Dicono che il corpo fosse stato raccolto da un operaio e riportato al quinto piano e rifiutato dai familiari. Di certo fu poi condotto in rue della Grande Chaumière, dove la giovane artista aveva trascorso gli ultimi mesi della sua vita e tutta l’ambivalenza del suo grande amore. Lì rimase abbandonato per tutto il mattino, in mezzo a scatole di sardine e bottiglie vuote.
Così si chiuse la storia di Jeanne Hébuterne: con un corollario post mortem che ricalcò pari pari la sua vita.
Negli stessi istanti in cui si vegliava Amedeo seppellito di fiori come un principe, Jeannette veniva avvolta in una tovaglia portata da Maria Vasselieff e vigilata durante la notte da due amici di Amedeo, che avevano soprattutto il compito di controllare che i topi non deturpassero ancora di più quel povero corpo.
Dicono che il 27 gennaio, durante i sontuosi funerali di Modigliani, ci fosse una bellissima giornata di sole. Il giorno dopo, invece, aveva ripreso a piovere. E sotto la pioggia, alle otto del mattino, si svolse il funerale di Jeannette, in presenza di alcuni amici che erano senz’altro pochi, ma sembrarono anche troppi ai familiari, i quali avrebbero voluto che la ragazza se ne andasse nel più assoluto silenzio.
Ci volle del tempo prima che il suo corpo fosse ricongiunto a quello del suo compagno, al cimitero di Père Lachaise. Ma anche in quella circostanza non le fu resa giustizia. Se andate a visitare quella tomba, leggerete sulla lapide una data di morte sbagliata, il 25 gennaio e non il 26. Ciò che più mi turba,  tuttavia, è l’epitaffio. Fianco a fianco i loro corpi, fianco a fianco le scritte. Per lui “Morte lo colse quando giunse alla gloria”; per lei “Compagna devota fino all’estremo sacrificio”.
Jeanne Hébuterne non fu solo compagna, ma anche pittrice, musicista, figlia, madre e chissà quante altre cose ancora. Saperla quasi dimenticata, o ricordata soltanto per il suo gesto disperato – che tra l’altro amplificò la gloria postuma di Modigliani – è uno dei motivi che mi hanno spinto a cercarla e a scrivere di lei. E la cerco ancora.

Preghiera in inverno (In memoria di Amedeo Modigliani)

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Preghiera in inverno                                      (In memoria di Amedeo Modigliani)

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Amedeo Modigliani e Jeanne Hébuterne

Sono trascorsi cento anni esatti dalla morte di Amedeo Modigliani, avvenuta all’Hôpital de la Charité di Parigi il 24 gennaio 1920. Il pittore era stato ricoverato per una meningite tubercolare, dopo avere trascorso giorni e giorni chiuso a casa, in agonia, lontano da tutti tranne che dalla sua compagna,  Jeanne Hébuterne.
Innamorata a mio modo di questa giovane donna, anima inquieta e valente pittrice a sua volta,  ho voluto immaginare come lei possa avere vissuto quei momenti, lei che contibuì a rendere immortale il mito di Modigliani, ma che dal mito di Modigliani fu oscurata, nascosta e dimenticata per cento anni almeno.
Mi scuseranno quindi gli estimatori dell’artista livornese se, per ricordare lui, ancora una volta  io celebro lei e qui di seguito  racconto  ciò che, secondo me, può essere accaduto nell’atelier di Rue de La Grande Chaumière nel gennaio del 1920.


Preghiera in inverno
(Questa notte, domani sarò)

L’abbraccia. Che altro può fare? Si allaccia a lui nel tentativo disperato di trattenerlo, di non farlo andare via. Dove non hanno potuto le altre donne sta riuscendo adesso la morte, con tutto il senso di ineluttabile e di definitivo che si porta dietro.
Se ne sta ferma, sdraiata accanto a lui, la pancia enorme fasciata dal maglione giallo. Quella stessa pancia le impedisce di avvolgere il suo uomo in un abbraccio che lo riscaldi e lo protegga. Lei chiude gli occhi. Lui vaneggia e delira. Lui trema di febbre e di freddo. Lei trema di paura.
Il bambino si muove.
Il letto è freddo. Dedo è freddo. Certe volte lo tocca ed è gelido, le sembra già morto. Avvicina la faccia alla sua, trattiene il respiro per capire se il suo alito ci sia ancora, se arrivi a sfiorarla. Altre notti, invece, quell’alito si è fatto sentire forte. Sono state le notti in cui lui bruciava di febbre, gli accessi di tosse lo tormentavano e le lenzuola, al mattino, erano macchiate di sangue.
Dedo, amore mio.
Non ha mai visto la morte da vicino, la piccola Jeanne. Le è toccata in sorte la visione di una morte che costituirà l’annientamento della sua stessa vita. Non può prepararsi al lutto, non può immaginare cosa accadrà dopo la morte di Dedo. Dopo Dedo, senza Dedo, nulla ancora può esserci, niente altro può ancora accadere.
Lo abbraccia, straziata da punture di dolori che arrivano da tutte le parti. L’unico motivo per cui ha vissuto negli ultimi tre anni se ne sta andando, forse se n’è già andato. Sono pochi i momenti di lucidità in cui la riconosce, in cui la guarda con quegli occhi italiani che sono ancora ammalianti, nonostante tutto. Sono occhi che ardono, in un volto in cui tutto, ormai, è diventato devastazione: i capelli si sono fatti radi, la barba incolta copre delle guance incavate, la bocca ha perso molti dei suoi denti. Amedeo soffre e delira, biascica parole senza senso, ogni tanto si altera e si agita, cerca di alzarsi a sedere sul letto, la spinge con rinnovata forza, ma poi ricade, affranto. Tossisce e sputa sangue cupo, e con il sangue l’anima. Le grandi finestre della soffitta di Rue de La Grande Chaumière si aprono su un cielo grigio. La pioggia batte forte contro i vetri, è un rumore che rende il freddo ancora più gelido.
Il bambino si muove.

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Amedeo Modigliani ritratto da Jeanne Hèbuterne

Le torna in mente la poesia di Il’ja Ehrenburg, imparata a memoria quando era ancora bambina e il mondo sembrava sorriderle:
“Dio ha molte stelle nel suo paradiso senza nubi.
Ma io ho solo te. Resta ancora un poco, non morire.
Ti prego, non morire”.
La recita a bassa voce, la sussurra, come una cantilena, o come una preghiera.
Il bambino si muove.
Tornare a pregare, questo può fare.
Giunge le mani per alzare la sua preghiera al Signore suo Dio. È stato il Dio di suo padre, per forza deve essere il suo.
Eccola, è al Suo cospetto, con tutta la sua debolezza, con tutta la sua imperfezione, con tutta la sua umanità. È una peccatrice. Non è stata capace di essere una buona figlia, nè una buona madre. Ha deluso le persone che hanno avuto la sfortuna di incontrarla e ha deluso Lui, il Signore suo Dio.
Nessun diritto ha di pregarLo, ma ugualmente Lo prega.
Gli chiede di salvare quest’uomo. Non lo merita, ma glieLo chiede ugualmente. Gli chiede di farlo per lui e anche per se stessa, perchè senza di lui lei finisce di vivere. Non può, non può proprio. Gli chiede di lasciarglielo accanto, che riscaldi il suo fianco, che lei possa sentire il calore del suo corpo durante la notte, che le dia l’alito di vita che le necessita, che le consenta di esserci – da imperfetta, da incapace – per quella figlia che è lontana da lei e per questo figlio che è dentro di lei.
Chiede al Signore suo Dio di perdonarli, lei e lui.
Lui non è cattivo, è solo fragile, quasi quanto lei.
Al suo Signore, che è amore sconfinato, chiede adesso di abbassare lo sguardo sul suo amore per lui. È un amore terreno, piccolo e limitato, ma è tutto quello che ha.
Suo padre le ha insegnato che il Signore dovrebbe essere la sua ragione di vita. Ma – e chiede ancora una volta perdono se Lo bestemmia mentre Lo prega – la sua unica ragione di vita è Dedo.
Non tollera di vederlo soffrire ancora. Chiede al suo Dio di restituirglielo o di chiamarlo a Lui e, se così sarà, sia fatta la Sua volontà. Per lui e per lei.
E così sia.
Il bambino si muove.

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Tratto da Di Schiena – Jeanne Hébuterne Senza Modigliani., di Anna Burgio, 2016, Città del Sole Edizioni.

La passione salvifica

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La passione salvifica

la grande onda di kanagawa

La grande onda di kanagawa – Katsushika Hokusai, 1830

Io sono una abituata a conquistarsi le cose. Ormai lo so, sembra scritto nel mio destino che io debba spesso lottare per ottenere anche quelli che vengono chiamati diritti. Mai avuto niente di regalato, io. È un genere di circostanza che spesso si ripete, forse sono solo un po’ sfortunata, forse non sono mai stata capace di rivendicare nel modo giusto. E quando accade che io mi veda un diritto negato, se da un lato combatto e mi arrabbio, e non cedo e non rinuncio, dall’altro la mia visione complessiva del mondo naturalmente ne risente, anche perché ho la cattiva tendenza ad allargare lo sguardo e a paragonare la mia esperienza a quella di tanti altri. Non mi sento, insomma, l’unico Calimero della situazione,  me tapina mentre gli altri hanno vita facile. Approfitto delle mie disavventure per fermare l’attenzione su uno spaccato di società che non ci racconta niente di buono.
Del resto, che viviamo tempi bui è stato già detto, che le occasioni e le ragioni per buttarsi giù siano tante anche. Dal macrocosmo al microcosmo ci sono infiniti motivi per perdere fiducia nel futuro, per dimenticare il concetto di speranza, per fare diventare il pensiero positivo – ovviamente per chi riesce a farlo – una forzatura autoimposta per sopravvivere.
Eppure, o forse proprio per questa premessa, chi dice che le risorse vanno cercate dentro di sè non sbaglia. La spinta vitale non nasce tanto dal fare qualcosa, quanto dall’essere qualcosa. Coltivare un interesse, un obiettivo, una passione, e già solo per questo costruirsi un senso e un’identità ci permette, io credo,  di collocarci adeguatamente in uno spazio e in un luogo che diventano nostri, unicamente nostri, e quindi intoccabili.
Il naufrago sull’isola deserta, come il detenuto in carcere, ha bisogno non tanto di qualcosa da fare quanto piuttosto di qualcosa da amare. Di detenuti per il mio lavoro ne ho conosciuti tanti, e ci sono stati tempi in cui mi sono chiesta dove trovava la forza chi era condannato all’ergastolo, privato – a torto o a ragione, non entro qui nel merito – della possibilità di immaginare un futuro. Allora ho notato che c’erano due possibili strade: una era quella di nutrirsi di rabbia, di trovare la forza della resistenza nell’odio e nel risentimento; l’altra era quella di prendersi in qualche modo, in qualsiasi modo cura di sé.
Oriana Fallaci in Un uomo (Rizzoli, 1979) ci racconta la storia di Alekos Panagulis, politico e rivoluzionario greco nonché suo compagno di vita. Nel 1968 Panagulis, imprigionato a seguito di un attentato al dittatore Papadopulos, venne rinchiuso, con una condanna incombente alla pena di morte, in una cella sotterranea di due metri per tre in cui restò per tre anni e mezzo prima di essere liberato per amnistia. Come fece a sopravvivere? Ovviamente grazie alla forza del suo credo politico, delle idee di libertà e giustizia per cui si batteva. Ma anche grazie alla capacità di usare l’immaginazione e lo spirito creativo come arma per plasmare la realtà e riuscire a sopportarla. Quando non gli concedevano carta e matita lui, che era un poeta, usava il suo sangue per scrivere sulle pareti della cella. E riuscì a mantenere il suo senso di umanità stabilendo un contatto con l’unico interlocutore possibile, uno scarafaggio a cui diede il nome Dalì. Chi mai penserebbe di dare un nome a uno scarafaggio? Eppure quando lessi il libro mi sembrò la cosa più ragionevole e naturale che Alekos potesse fare. Stava creando un legame, stava cercando e dandosi un senso.

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Alekos Panagulis

Tuttavia non c’è bisogno di ipotizzare situazioni così estreme per riuscire a immaginare quanto sia necessario, in molte circostanze, avere quella che può essere considerata una via di fuga.
Se, più nolenti che volenti, ci si ritrova in un sistema che stritola ci deve essere una parte di sè – fatta di interessi, di risorse, di affetti, di stima e di autostima – che permetta di dire “Per quanto male possiate farmi, non mi avrete mai”.
Se viviamo una situazione lavorativa frustrante, se siamo invischiati in relazioni ambigue o assillanti, se a un certo punto ci sembra che qualcuno o qualcosa ci stia rubando in tutto o in parte la nostra vita e noi sul momento non possiamo fare nulla di concreto per cambiare le cose, coltivare una passione può salvarci, può farci davvero credere che esista una no man’s land in cui nessuno, oltre a noi, ha potere di decisione e influenza. Può trattarsi di qualunque cosa, purché ci dia piacere e ci faccia sentire che, in quel luogo e in quel momento stiamo davvero bene: leggere, praticare una forma d’arte o un talento, lavorare a maglia, fare modellismo, arrampicarsi o, al contrario buttarsi giù da grandi altezze con un paracadute, qualsiasi cosa che sentiamo di amare e che ci manca se non la esercitiamo, esattamente come quando si è lontani dall’innamorato. Per me è scrivere, scrivere per il gusto di farlo. Oggi posso dire senza mezzi termini che scrivere mi ha salvato la vita.
Tutti abbiamo un talento, una predisposizione, una voglia, una necessità. E spesso si tratta di cose che sono molto meno inaccessibili di quanto immaginiamo. Spesso si tratta soltanto di dare forza ai nostri desideri, piuttosto che alle nostre remore e alle nostre paure.

STEVE JOBS

Steve Jobs

A questo punto  diventa quasi d’obbligo ricordare Steve Jobs, citando alcuni stralci significativi del suo famosissimo discorso ai neolaureati di Stanford, nel giugno del 2005:
“Dovete credere in qualcosa – il vostro ombelico, il destino, la vita, il karma, qualsiasi cosa…
… Qualche volta la vita ti colpisce come un mattone in testa. Non perdete la fede, però. Sono convinto che l’unica cosa che mi ha trattenuto dal mollare tutto sia stato l’amore per quello che ho fatto. Dovete trovare quel che amate…
… Stay hungry. Stay foolish.”

 

Siate affamati. Siate folli. Questo non ve lo può rubare nessuno.