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Archivi del mese: novembre 2023

Io scherzavo


Edward Hopper, “Nighthawks”, particolare

«Ciao, Raffaè»

«E tu chi sei?»

«Ma come, non lo sai? Eppure mi conosci da tanto tempo!»

«Io? Ma vuoi prendermi in giro? Io non ti ho mai visto in vita mia».

«Hai fatto finta di non vedermi, Raffaè, ma io sono stato lo stesso sempre con te».

«Ti dico che non ti conosco».

«Ti ripeto che fai finta, Raffaè. Io sono quella parte di te che hai sempre voluto ignorare. Lo stai facendo anche adesso, ma lo sappiamo tutti e due che sotto sotto sai che esisto, che sono sempre esistito».

«Stai imbrogliando. Io mi conosco benissimo e so per certo che non esiste un altro me. Non ho niente da nascondere io. Quello che sono si vede, sono un uomo tutto d’un pezzo».

«Ti piacerebbe, vero? Eppure qualche volta nella tua vita con me ci hai anche parlato, quando hai avuto qualche dubbio su come ti comportavi, sul male che facevi. Ammettilo, è capitato che tu ti sia guardato allo specchio e abbia visto me».

«Io fare del male? Ma non farmi ridere! Io sono una persona corretta, apprezzata da tutti…»

«Lo so che ti piace pensarlo, ma ti devo deludere. Non è affatto così».

«E come sarebbe, allora?»

«Vediamo, prova a pensare a come ti sei comportato con la tua famiglia».

«La mia famiglia? E cosa avresti da ridire? Ho sempre lavorato, ho dato a mia moglie e ai miei figli una vita più che dignitosa».

«E pensi che questo basti?»

«Certo che basta, e ti aggiungo che sono stato un buon marito e un buon padre. Ho permesso a mia moglie di fare quello che voleva, ovviamente entro certi limiti. Uscire per divertimento senza di me, per esempio, non era una cosa ben fatta. E nemmeno vestirsi in modo provocante; aveva sposato me, non era il caso di provocare altri, non credi? Per quanto riguarda i miei figli, ho permesso loro di studiare, nonostante i sacrifici. Ti sembra poco?»

«Vedi che qualcosa comincia a venire a galla? Tu hai permesso?»

«Ma certo, la responsabilità della famiglia era la mia, era giusto che mi assumessi io il peso di farla andare come si deve. Ho dovuto dare delle regole, ma li ho trattati sempre bene».

«Posso farti una domanda, Raffaè? Che cosa è secondo te la violenza?»

«La violenza… violenza è una parola grossa. È fare male, alzare le mani, ferire, uccidere. Questa è la violenza».

«E qui ti volevo. Costringere gli altri a fare cose che non vogliono o vietare di fare cose che desiderano secondo te che cos’è?»

«Ma che c’entra? Se è per il loro bene…»

«E chi decide qual è il loro bene? Lo decidi tu? La violenza può avere tante sfumature, Raffaè. Guarda, ti faccio un esempio. Quante volte hai detto a tua moglie Sei un’idiota? E quante volte lei hai detto Stai zitta?»

«Sì, vabbè, ma io scherzavo, se se la prendeva era lei che era troppo permalosa»

«Ah sì? E dimmi, se l’avessero fatto con te, con la stessa frequenza con cui l’hai fatto tu, come ti saresti sentito? Solo troppo permaloso?»

«Io scherzavo, avrebbe dovuto essere lei a capire che scherzavo».

«Certo, Raffaè, e scherzavi anche tutte le volte che l’hai tradita, vero? Anche in questo caso mi chiedo come ti saresti sentito tu se l’avesse fatto lei. E invece lei sempre zitta, sempre paziente, sempre al suo posto. Comodo così, no?»

«Ma che paragoni fai, si sa che l’uomo è cacciatore. E che la donna quando tradisce lo fa con sentimento. Per questo se l’avesse fatto lei non so di cosa sarei stato capace».

«Di che cosa, Raffaè? Di ucciderla magari? Allora forse mi vuoi dire che ti è solo mancata l’occasione? La verità te la dico io. Nella tua testa ci sei tu e poi c’è il resto del mondo, compresi tua moglie e i tuoi figli. Prima tu, poi gli altri che hanno sempre avuto meno ragione di te, che hai considerato con meno diritti, una perché donna e gli altri perché piccoli. Hai approfittato del fatto che dipendevano da te. Per questo li hai umiliati e spesso costretti a una vita fatta di soggezione che non avevano scelto. E mi dici che non è violenza anche questa? Non c’è bisogno di lividi, Raffaè, per fare violenza. E non te ne puoi uscire con la storia che scherzavi, perché hai scherzato con la vita degli altri. Io ti vedevo schernire tua moglie, prendere in giro i tuoi figli dicendo loro che erano degli stupidi solo perché non erano come te, e stavo male per te, quindi per noi. Non puoi immaginare la rabbia che mi hai fatto in quei momenti. La sentivi anche tu quella rabbia, ma come al solito la scaricavi su chi avevi vicino. Del resto lo hai sempre detto che non puoi  farci niente, che tratti male le persone a cui vuoi bene. Perché sei un vigliacco, tratti male gli altri per evitare di fare i conti con te stesso. Sappi una cosa, Raffaè. Io, che sono la parte buona di te, non ti stimo. E tu potrai stare bene solo se avrai la mia stima e il mio rispetto. Pensaci, Raffaè».

Anna Burgio

Favola della Grande Meraviglia

Inserito il

Grande Meraviglia di Viola Ardone, Einaudi 2023

«Irene, vai a lavare i denti che è ora di dormire».

«Un altro po’, mamma».

«Un altro po’ è già passato, domani è lunedì e la sveglia è presto. E poi mi sembra che i tuoi occhi siano già mezzi chiusi. Mi sbaglio?»

Irene se li stropiccia, quegli occhi belli, e non risponde. A malincuore si alza dal divano, prende il pelouche di Titti, lo sistema seduto per bene nell’angolo – è sempre stata una bambina ordinata – e prima di andare in bagno gli dà il bacio della buonanotte.

«Però stasera mi racconti una storia nuova? Proprio tua tua, non che me la leggi».

La ascolto e penso a quando, tra qualche anno, questa voce di campanellino trillante cambierà. Mi sento triste per allora, come se già adesso dovessi prepararmi a elaborare un senso di lutto. E questo non è buono.

Irene lava i dentini come le abbiamo insegnato, per la verità più suo padre che io, con movimenti dall’alto verso il basso e viceversa e mentre lava prova a contare, nonostante lo spazzolino in bocca, per tre volte fino a cinquanta. Anche questo glielo abbiamo insegnato, spiegandole che è il tempo giusto per una buona pulizia. A contare invece ha imparato quasi da sola, non ha ancora quattro anni e sa arrivare fino a cento.

Irene sciacqua la bocca e il viso e poi lo tampona con l’asciugamano, come vede fare a me. Stasera siamo sole, suo padre è partito per due giorni e tornerà domani. Ci manca, ma sappiamo che lui è contento perché è andato a trovare i nonni e poi tornerà. La certezza del tornare è una cosa bella, lo sappiamo.

Nella sua cameretta mia figlia si infila sotto le coperte, mentre io mi chiedo ancora cosa mi posso inventare per accontentare la sua richiesta di una storia nuova. Non sono mai stata brava a inventare io, non ho fantasia.

Irene mi guarda speranzosa.

«Dai mamma, racconta».

Senza alcuna precisa corrispondenza, mi torna in mente Viola Ardone e il suo ultimo libro, Grande Meraviglia, che ho finito di leggere ieri. Non so perché, non è una storia adatta a una bambina, storia di manicomio e di ingiustizie, di infanzie negate e di involontari abbandoni. Eppure non riesco a togliermelo dalla testa, torno sempre lì con i pensieri.

«Sì, comincio», le dico sedendomi accanto a lei, sul bordo del lettino.

«C’era una volta una bimba che si chiamava Elba».

«Che strano nome Elba. Perché si chiamava così? Elba come l’isola?»

Noi abitiamo a Castiglione della Pescaia, l’isola ce l’abbiamo di fronte, quindi è normale che sia la prima cosa a cui Irene pensi.

«No, tesoro, Elba è anche un fiume. Attraversa tutta la Germania e, come tutti i fiumi, arriva al mare».

«Deve essere un fiume molto grande allora, perché tu mi hai detto che la Germania è gigante».

«Sì, il fiume è molto grande, ma la Elba della nostra storia non lo era, anzi era proprio piccola».

«E ce l’aveva una mamma questa Elba?»

Mi torna in mente la bravura di Ardone, la capacità di trasmettere tutto lo struggimento, tutta la vicinanza e poi la lontananza, tutto il dolore di Elba.

«Sì, ce l’aveva», rispondo. «E lei la chiamava Mutti, che vuol dire mamma in tedesco».

«E un papà ce l’aveva?»

Comincio a pentirmi di avere cominciato a raccontare questa storia, e mannaggia a me che non so inventare, altrimenti avrei già dato un’impronta diversa. Devo escogitare qualcosa.

«Sì, Irene, un papà ce l’hanno tutti, anche quando non lo conoscono. Elba il papà ce lo aveva lontano, perché quando lei è nata la mamma viveva in un bosco incantato e una brutta magia le impediva di uscire».

Dai che sei brava e ce la puoi fare, mi dico, hai saputo trasformare il manicomio in un bosco incantato.

« E che cosa faceva questa magia?»

«Trasformava le persone, anche se erano persone buone e tranquille diventavano strane, facevano e dicevano cose che se non fossero state lì non avrebbero né detto né fatto».

«Allora era proprio una strana magia, e poi non capisco perché se erano buone e non facevano niente di male dovevano essere stregate. E poi cosa è successo?»

«La piccola Elba cresceva accanto alla sua Mutti, che le raccontava le storie proprio come faccio io con te. E poi ti ho detto che nel bosco c’erano tante persone buone e la bambina giocava con loro. Lei amava le rime e le scriveva in un suo quadernino segreto. Tu sai cosa sono le rime?»

«Lo so, lo so» risponde Irene sbadigliando. «Come gatto e matto, giusto?»

«Bravissima, proprio come gatto e matto», rispondo io, sorprendendomi del fatto che, tra tante parole, mia figlia ne abbia beccate due che sono nel libro.

«Inventando le rime Elba non si annoiava mai. Pure se lei non era sotto incantesimo e poteva uscire dal bosco non voleva farlo, anche perché avrebbe dovuto lasciare la sua Mutti».

«E poi cosa è successo?»

«E poi un giorno la Mutti scomparve e la piccola Elba era disperata. Ma arrivò un Mago che diceva che tutti potevano uscire dal bosco, perché le regole erano cambiate e l’incantesimo non valeva più. Allora quel Mago, che si chiamava Meraviglia, prese Elba e la portò con sé fuori dal bosco incantato, perché voleva che la vita della bambina fosse felice in mezzo a tutti i bambini del mondo».

Adesso mentre parlo non guardo Irene, fisso fuori dalla finestra aspettando il momento in cui lei mi fermerà chiedendomi che fine abbia fatto la Mutti.

Fisso fuori dalla finestra e penso. Penso a quanto è fortunata mia figlia, molto più fortunata di Elba e di tanti bambini che, anche se non hanno vissuto il manicomio, hanno conosciuto il dolore che i bambini non dovrebbero mai conoscere. Penso a quanto sono fortunata io, che non ho rischiato di finire in manicomio solo per quello che ero, per come la pensavo e per come mi comportavo. Penso a mia madre, assistente sociale che i mezzo a rivoluzioni sociali come la legge Basaglia si è formata, che al Welfare State ci ha creduto e adesso è oppressa, nel suo lavoro che tanto ha amato, dalla burocratizzazione che ingabbia anche le relazioni. Penso a quanto sia brava Viola Ardone a porre l’accento su tematiche tanto importanti quanto dimenticate, perché il diverso da sé, se pensiamo come sé alla società, fa tanta di quella paura da volerlo tenere lontano dagli occhi e dal cuore.

Mi accorgo poi che sto pensando da qualche minuto e Irene non mi ha interrotto. C’è silenzio. Sposto lo sguardo sulla mia bambina e la vedo che dorme, con quella increspatura sulle labbra che ha quando è serena e che assomiglia tanto a un sorriso. La osservo dormire e ancora una volta penso che siamo fortunate, finché la fortuna ci assiste.

Domani lei vorrà sapere come continua la storia e io desidererò avere accanto una Viola Ardone che sappia modellare le parole per non turbare la mia piccola.

Ma vado a dormire tranquilla, perché so che domani il padre di Irene mi aiuterà a trovare un epilogo risarcitorio per la Mutti e un lieto fine per tutta la favola.

Anna Burgio

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