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Assammaratu

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Immagine di wirestock su Freepik

Cesare Pavese era assammarato e si buscò una bronchite, pensa Nino mentre si guarda attorno per cercare un qualche riparo. Dal pensiero di Cesare a quello di Alice il passo è breve. Non ha mai capito granché di quello che canta De Gregori, spesso è troppo ermetico per lui, ma le sue canzoni lo hanno in ogni caso affascinato, sempre. È poesia, ha pensato, e la poesia capita che non si capisca.

Cesare perduto nella pioggia sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina. Nino molto più banalmente è uscito di casa per portare il cane a pisciare. Gli torna in mente un periodo, quel periodo, quell’adolescenza torbida e confusa, per lui come per tanti. Lui che era il Nino della Leva calcistica del ’68, ma non lo sapeva. Lui pensava di sapere decifrare i suoi timori, la sua timidezza che trasformava in stupida spavalderia, perché non riusciva a trovare altro modo per sopravvivere in quella giungla che era il mondo. E dopo tanti anni alla fine gli è rimasto solo il cane.

Il cane è quell’essere rimasto senza nome che solo nella sua testa lui chiama Masino. Senza nome perché disconosciuto, non voluto e non amato che da lui da quando è arrivato in casa sua. Nino non sta pensando ai suoi figli, che ormai sono partiti nel mondo come soldati (eccolo che torna, De Gregori), a cui non importa niente di quello che accade nella sua vita. No, il cane è stato non voluto da sua moglie, ed è stato ed è occasione di battaglie in cui si scontrano per non scontrarsi in altro.

Nonostante il cappuccio della felpa calcato sulla testa fino a coprirgli gli occhi, Nino sente l’acqua che comincia a gocciolargli tra i capelli, e dire che ne ha ancora tanti, e a penetrare nel cuoio capelluto. Si sta assammarrando. Quando è uscito di casa di casa era nuvoloso, ma non tanto da far presagire pioggia. Anche per questo, seguendo solo i suoi pensieri, si era allontanato dal centro abitato. Lui e Luisa vivono alla periferia del paese, proprio al confine con la campagna circostante. E in campagna lui si è messo a camminare , alle cinque di pomeriggio di questo mese di ottobre ancora quasi estivo. Ha lasciato Masino libero di scegliere la strada, lo ha semplicemente seguito e dopo un po’ ha perso la cognizione dello spazio e del tempo. Certo, sapeva come ritornare a casa, ma si era allontanato di molto, si stava facendo buio e attorno non c’era traccia di uomini né di abitazioni. E aveva cominciato a piovere.

Da quando è andato in pensione, a luglio, la situazione a casa si è complicata. All’inizio era sembrato un periodo come gli altri, come quando in estate andava in ferie. Anche in vacanza ci sono abitudini che si ripetono e che sanno essere rassicuranti. Ma poi è arrivato settembre e lui ha dovuto fare i conti con la sua vita vuota, il suo niente da fare se non badare al cane. Quando si era impuntato per farlo entrare in casa Luisa era stata chiara: se ne sarebbe dovuto occupare esclusivamente lui, lei non voleva neanche percepire la presenza dell’animale e guai se fosse salito sul divano o se avesse sporcato. In quel caso si sarebbero ritrovati in un attimo fuori tutti e due, uomo e cane.

Nino aveva accettato perché per lui era in ogni caso una conquista, era la priva volta che passava una sua decisione. E meno male perché adesso, senza più lavoro, senza interessi e senza amici, se non avesse avuto Masino sarebbe morto di solitudine. Luisa invece continuava la sua vita di sempre, badava alla casa, incontrava le amiche, aveva sempre un parrucchiere o un negozio da andare a visitare.

La pioggia ora gli gocciola dal bordo del cappuccio, dalle ciglia, dal naso e dalle mani. Nino quasi non se ne accorge, pensa a Masino e a tutta l’acqua che lo sta inzuppando. Solo dopo riflette su quanto questa pioggia possa fare male a lui e in questo vede un’opportunità. Spera in una bronchite, certo non mortale, ma che si trasformi magari in una polmonite e gli dia da contrastare per qualche tempo. Forse Luisa potrebbe provare un po’ di tenerezza nei suoi confronti e lui avrebbe qualcosa di avventuroso di cui sentirsi fiero.

I fari di una macchina si avvicinano e, quando si fermano accanto a lui, Luisa abbassa il finestrino. Come ha fatto a trovarlo? Domanda inutile. Lei può tutto.

«Sali, incapace di un uomo» gli dice. «Si può sapere cosa ti è passato per la testa? Tutto per questo stupido cane! Che ti venisse una bronchite così impari!».

La bronchite non gli verrà. Questa inutile assammaratura gli procurerà soltanto qualche starnuto. Ma non importa, spera solo che non ci siano conseguenze per il suo Masino.

Anna Burgio

Foto di Diana Cocco – contest Dizy lavatoio.

Assammarari

Quando mi è venuta l’idea di utilizzare parole tradizionali siciliane intorno alle quali far ruotare dei racconti, la prima che mi si è presentata – e non mi ha più lasciato – è stata assammarari, che nel mio dialetto letteralmente significa immergere i panni in acqua, per farli imbevere in una sorta di prelavaggio prima di sottoporli a insaponatura. Da lì è discesa poi l’accezione più comune, cioè inzuppare o essere inzuppato, con specifico riferimento a persone o cose sotto la pioggia.

Scegliendo d’istinto questo termine, non immaginavo di poter trovare tante difficoltà nella ricostruzione etimologica della sua origine.

Non ho studi specialistici di linguistica o glottologia, la mia ricerca dell’etimologia delle parole deriva soltanto da una grande curiosità, simile a quella che hanno i bambini quando rompono i giocattoli per capire come sono fatti dentro. Con la stessa giocosa ingenuità, quindi, mi sono avvalsa, quali strumenti di ricerca, solo di quanto si trova sul web e di alcuni dizionari specialistici che ho modo di consultare.

Per quanto riguarda questa prima parola, assammarari – tanto diffusa quanto di provenienza incerta – la prima cosa che ho scoperto è che non è peculiare della lingua siciliana, bensì diffusa nel Meridione d’Italia, almeno in Campania e in Calabria.

Riguardo all’etimologia e di conseguenza all’origine geografica, le opinioni si diversificano un po’.

Secondo Reinhart Dozy, orientalista olandese vissuto in pieno Ottocento, il termine potrebbe avere radice magrebina, derivando dalla parola algerina shammakh, che significa bagnato. Ciò sarebbe avvalorato dal fatto che un sinonimo di assammarari in siciliano è sciammarari.

Anche Alberto Varvaro, linguista palermitano, autore del Dizionario storico-etimologico del siciliano, si riferirebbe al termine arabo sammah (pronuncia shammakh), corrispondente a mettere a mollo.

Francesco D’Ascoli, a cui dobbiamo il Dizionario etimologico napoletano, si riferirebbe invece al termine arabo samar, che dovrebbe significare latte annacquato.

Il Dizionario etimologico della lingua siciliana, di Luigi Milanesi, che richiama anche il già citato sciammarari, rimanda a un’origine spagnola da amarar, inzuppare. In giro per il web ho trovato uguale ipotesi di provenienza, con amarar dal castigliano e  aixalavar dal catalano.

Da qualche parte, infine, ho riscontrato che la parola assammmarari avrebbe la stessa radice di zammatiari (sguazzare nell’acqua), derivato da zaman, termine arabo che significherebbe intridere, congiungere, coagulare.

Considerato che le mie ricerche sono principalmente dovute a un divertissement, ogni precisazione o correzione è più che gradita.

Informazioni su Anna Burgio

Narratrice di storie per caso, idealista nonostante. Impegnata, soprattutto, a imparare a vivere.

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