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Archivio dell'autore: Anna Burgio

I luoghi di Jeanne / 1 – Rue Amyot

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Alla fine l’ho fatto. In questi giorni ho più volte pensato che spesso volere è potere. Spesso, se non sempre addirittura. Avevo promesso a me stessa che sarei andata a trovare Jeanne Hébuterne, nella sua Parigi. E l’ho fatto. Da brava bastian contraria quale sono, prima ho scritto di lei e poi sono andata a visitare i suoi luoghi. Ho così potuto provare la straordinaria sensazione di riandare su percorsi già fatti, visitando luoghi che in realtà non avevo mai visto prima.
Per raggiungere il mio obiettivo ho dovuto fare e affrontare cose che non avevo mai fatto e affrontato e ho scoperto in me una naturalezza che non avrei mai immaginato. Potenza della determinazione.
Sono partita con la migliore compagnia che potessi desiderare, un’amica che ha visto nascere in me l’interesse per la piccola Jeannette, che ha seguito il mio percorso mentale ed emozionale condividendolo, che per prima ha letto le bozze del libro quando ancora libro non era. Un’amica che, come me, si è innamorata della silenziosa e schiva ragazza parigina vissuta un secolo fa.
Abbiamo scelto Montparnasse come luogo di residenza del nostro fugace viaggio. Non a caso, ovviamente. A Montparnasse si è sviluppata la breve vita di Jeanne, lì ha studiato pittura, lì ha incontrato Modigliani, lì è andata a vivere con lui. Non molto distante – nel Quartiere latino, alle spalle del Pantheon –  Jeanne ha abitato con i genitori e con il fratello, in quella stessa casa che l’ha infine vista porre termine ai suoi giorni. Proprio dal luogo che, come in un circolo, ha costituito l’inizio e la fine di questa storia disperata noi abbiamo iniziato il nostro percorso: Rue Amyot.
Abbiamo girato tanto prima di trovare la strada. Avevo lasciato la mappa di Parigi in albergo – chissà che significati reconditi si possono attribuire a certe dimenticanze! – ed eravamo senza connessione internet. I parigini sono di una gentilezza disarmante, disponibili a dare informazioni dettagliatissime, ma nessuno conosceva rue Amyot.

Povera Jeanne, dimenticata da Parigi e dal mondo. 

Sentivo che eravamo vicine, girando incrociavamo con lo sguardo l’imponenza del Pantheon, attraversavamo strade che sembravano tutte uguali. All’improvviso, a un incrocio, la targa su un muro: Rue Amyot. Mi sono voltata a guardare la mia amica; aveva le lacrime agli occhi, esattamente come me. Ci sono emozioni apparentemente inspiegabili… Camminare sulle strade di Jeanne, raggiungere quella strada, fermarsi a osservare quelle finestre…

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“Jeanne si guarda attorno, posa lo sguardo sulle sue consuete, tranquille, amate cose. Su una cassapanca è poggiato il violino, ben riposto nella sua custodia. Sul tavolo
i libri di russo che ha da poco iniziato a studiare; accanto, la ciotola con le pietre che si diletta a impilare, per farne collane. Ci sono le tende alla finestra, c’è un calore confortante e, sparsi un po’ dappertutto, gli strumenti dell’arte che sta scoprendo di amare: la pittura. Non c’è sofferenza in ciò che la circonda”.

Accadeva tutto in quella casa al quinto piano, le sue ore felici da bambina, i suoi sogni, le sue speranze. Ma anche i suoi dissapori con il padre, con quell’uomo severo che mal tollerava  l’amore della sua figliola per quell’artista da strapazzo, italiano, ebreo, senza dimora fissa e senza reddito, che chissà che cosa mandava giù oltre all’alcool, che forse era anche malato.

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Alzo gli occhi alle finestre e immagino Jeanne che si prepara per andare all’Accademia, la cartella dei disegni sotto braccio.
Alzo gli occhi alle finestre e vedo Jeanne che chiude dietro di sé la porta di casa, per trasferirsi definitivamente in rue de la Grande Chaumiere, insieme al suo Dedo, e contro tutti.
Alzo gli occhi alle finestre e vedo un cielo nero di gennaio, e Jeanne ritta sul davanzale.

“Jeannette, quindi, in questo momento terribile viene riaccolta a casa. Non sappiamo che cosa accadde dentro quell’abitazione di rue Amyot, n. 8 bis. Non sappiamo che cosa i quattro membri della famiglia si dissero. Sospettiamo che Jeanne possa aver reso noti i suoi intendimenti, perché di fatto quando la ragazza venne messa a letto si pose a vegliarla suo fratello. Ma Jeanne era tenace e rimase tale fino all’ultimo. Aspettò pazientemente che André si addormentasse e all’alba aprì la finestra e si lasciò andare nel vuoto.
Di schiena.
Erano le tre del mattino del 26 gennaio 1920.”

Abbasso gli occhi sul selciato e la piccola Jeannette è lì, ormai immobile, una gamba spezzata, un bambino in grembo che, incolpevole, è volato con lei.

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Il portone si apre e ne escono due ragazzi. La mia amica li blocca. “Excusez-moi, c’est la maison de Jeanne Hébuterne?” chiedo con il mio stentatissimo francese.
“La jeune fille qui s’est jetèe?” Risponde uno di loro. “Oui, cela”. E sorride.
Restiamo ancora un po’ lì, ognuna di noi due a sussurrare a proprio modo una preghiera. Poi piano piano andiamo via, con riluttanza ma anche con la consolazione di aver trovato qualcuno per cui la nostra Jeannette non sia del tutto sconosciuta.
Il viaggio continua.

Si potrebbe ascoltare Battisti

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felicia peppino

Il mare non si ferma: resiste. Le onde continuano a bagnare la riva. Qualche piccolo pesce, forse, starà tentando inutilmente di fuggire dai denti di uno squalo. Ma si sa: pesce grande mangia pesce piccolo. L’immensa distesa d’acqua salata non fa eccezione: non sempre le leggi sono giuste.
Resiste anche il sole, in Sicilia. Oggi sembra voler spaccare le pietre, sembra voler sposare l’aria primaverile che avvolge le case, che avvolge le strade, che avvolge i visi e le menti delle persone, impedendo loro di ricordare e permettendo loro di attribuire al caldo la colpa della scarsa memoria.
Resiste anche mamma Felicia, a Cinisi. Resiste e non piange, non urla, non tace. Resiste e si muove, resiste e racconta.
Fa buio più tardi del solito, in realtà sembra non voler far buio mai. Sembra voler essere un giorno infinito, sembra non voler far dormire nessuno. Si potrebbe ascoltare Battisti, stasera: solo per assaporare quella giusta dose di malinconia, quella giusta dose di tristezza profonda in grado di far quasi dimenticare la rabbia, soltanto per pochi minuti, solo per pochi lunghissimi minuti.
Felicia è seduta e ricorda: ricorda Peppino, ricorda se stessa, ricorda nonostante il caldo che avvolge le menti di tutti. Felicia si guarda allo specchio, senza notare i capelli fuori posto o la giacca abbottonata male. Felicia si guarda allo specchio e nota soltanto la stanchezza degli occhi e il volto distrutto.
Si potrebbe far ascoltare Battisti a chiunque, stasera. Questo farebbe la radio se solo qualcuno avesse il coraggio di accenderla, dopo le recenti “trasmissioni schizofreniche”; questo farebbe la radio se solo fosse una sera come tante, non carica di una tensione struggente e dolorosa; questo farebbe la radio se solo Battisti non avesse una voce in grado di arrivare dritto al cuore in pochi minuti.
Ma non c’è tempo per sentire la radio: nessuno ha il coraggio di accenderla, nessuno ne ha voglia e infine, del resto, la voce di Battisti arriva dritto al cuore in poco, pochissimo tempo.
Non c’è tempo per sentire la radio: son tutti di fretta, hanno tutti da fare.
Nessuno si ferma: il mare resiste, il sole resiste, Felicia resiste, resiste e racconta, resiste e si guarda allo specchio, resiste e non piange, non urla, non tace. Resiste ed osserva le stelle.
Si potrebbe ascoltare Battisti stasera, lo si potrebbe ascoltare fino alla nausea, fino allo sfinimento. Si potrebbe piangere e sorridere in eterno. E’ la sera del 10 maggio 1978 e Felicia, stasera, ha iniziato a resistere.

Sara Vignanello

Dentro la tasca di un qualunque mattino

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gianmaria testa

Mentre scrivo di un cancro che mi ha quasi aiutato a trovare la strada, scopro che un altro cancro malefico si è portato via uno degli autori che ho amato e che amo di più, in assoluto. La morte di Gianmaria Testa mi coglie di sorpresa, anche se sapevo della malattia, anche se era prevedibile, anche se era naturale aspettarselo. Però avevo fermamente – e follemente – creduto al suo coraggio, alla sua tenacia, alla sua resistenza attiva, alla sua voglia di vivere. Avevo voluto credere che ce l’avrebbe fatta, che avrebbe vinto.

Percepisco l’assenza. Una delle prime cose che penso è che nulla più della sua poesia potrà regalarci. Poi penso a chi mi ha fatto conoscere le sue canzoni, a un periodo della mia vita che non c’è più. Tutto passa. Ancora, penso a mia figlia e al gioco che facciamo ogni tanto di contare i concerti a cui abbiamo assistito, gli artisti che ancora ci mancano.

Gianmaria Testa manca. Mancherà, continuerà a mancare. So però che  porterò dentro la tasca di un qualunque mattino il ricordo del poeta ferroviere, presenza discreta, intelligente e profonda. Esattamente com’era lui.

 

 

Jeanne e le costole intrecciate

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Mi è stato chiesto:
“Ma è un romanzo?”
“No, non è un romanzo, anche se ha delle parti romanzate”.
“Allora è un saggio…”
“No, non può neanche definirsi tecnicamente un saggio, anche se del saggio ha la struttura”.
“Allora cos’è?”
Bella domanda.
E’ una storia narrata, ma non solo.
E’ una visione al femminile, senza però perdere di vista l’ottica degli uomini e mantenendo l’osservazione sulle relazioni.
Vinicio Capossela, che con la sua “Modì” è responsabile della nascita di questo libro, in un’altra canzone dice: “E gli uomini e le donne come talpe cieche le costole continuano a intrecciare”.
Ecco cos’è Di Schiena: è la storia di costole intrecciate, del bisogno d’amore che spinge anche a farsi e a fare del male, di fragilità che si incontrano e provano a costruire la propria storia e la propria vita come possono e come sanno. E’ una storia fuori dalla dimensione spazio-temporale, perché è realmente accaduta un secolo fa, ma continuiamo a vederla interpretare, con mille varianti e mille sfaccettature, nel nostro tempo e nei nostri luoghi.

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Purché sia sconosciuto e lontano

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Due fatti tragici,  anche se di matrice diversa,  nelle ultime ore  hanno procurato grande turbamento in Europa.   E hanno provocato grande turbamento in me,  e non solo per la drammaticità dei fatti.
Muoiono tredici ragazzi in Spagna a causa di un incidente stradale. Glisso sul fatto che si scatena un’accesa discussione sulla validità e sull’opportunità dei progetti Erasmus,  come se proprio l’Erasmus sia stato causa dell’incidente,  e non una fatalità che può arrivare sempre e comunque. Mi dà da pensare,  soprattutto,  la fatica che ho fatto a capire – dalle notizie che arrivavano dagli organi di stampa e dai social – che le vittime erano tredici e non sette.  Perché sette erano le ragazze italiane coinvolte,  sette storie raccontate,  sette foto pubblicate, sette preghiere levate al cielo.
Ieri mattina i fatti di Bruxelles,  pur nel doloroso stupore e nel senso condiviso della paura,  mi hanno riportato alle stesse considerazioni.  Ogni giorno, per guerre e contrapposizioni,  per conflitti pseudoreligiosi o migrazioni che anche da tali conflitti derivano,  muoiono centinaia e centinaia di esseri umani.  Ma le decine di morti di Bruxelles ci risuonano nell’intimo.  É comprensibile,  abbiamo il senso del pericolo talmente vicino che ci sta un attimo a diventare paura concreta. E il turbamento non arriva più all’improvviso,  te lo aspetti, ti alzi la mattina avendolo messo in conto,  lo senti come il fiato sul collo.
Perché noi ci diciamo europei,  e la distanza é limitata,  la matrice culturale é comune.  Più ancora che europei,  tuttavia,  ci sentiamo profondamente italiani,  perché la prima domanda che affiora,  e non solo tra la gente comune,  é se ci siano connazionali tra le vittime. Vogliamo sentirci europei,  ma il provincialismo ci sommerge.
Mi chiedo se il problema sia il mio,  che non riesco a vivere  forse il senso dell’appartenenza.  Io appartengo al genere umano,  e se un uomo muore provo tristezza.  Se muoiono tanti uomini provo sgomento,  e il mio primo pensiero non è chiedermi a quale nazionalità appartengano.  Mi chiedo immediatamente se sono coinvolte persone a cui voglio bene,  perché per fortuna le persone si spostano e anche gli amici,  purtroppo,  possono trovarsi in luoghi che neanche immagini e che diventano all’improvviso motivo di timore e di terrore  condiviso.   Non ho che farci,  é più facile che mi si colpisca negli affetti che nella cittadinanza.
Per questo se chi muore é uno sconosciuto,  per me non diventa meno lontano se scopro che si tratta di un italiano.
Se un cittadino del mondo muore,  se centinaia di cittadini del mondo muoiono,  vittime innocenti di cause ingiuste,  non mi chiedo da dove provengano. Mi chiedo solo un perché che è destinato a restare senza risposta. 
Ma forse aveva ragione Montale: se uno muore non importa a nessuno purché sia sconosciuto e lontano.

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BELLISSIMA, femminile singolare

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Amo la parole indipendente. Mi rimanda impressioni di gioia, di libertà. Se poi a essere indipendenti sono la musica e i libri, il suono acquista un valore aggiunto. Se ancora essere indipendente significa contrapporsi a gruppi granitici che monopolizzano la scena culturale italiana, la parola indipendente prende il gusto orgoglioso della resistenza, se non della resilienza addirittura.

Si sta tenendo in questi giorni a Milano BELLISSIMA, fiera di libri e cultura indipendente. Per tre giorni, al Palazzo del Ghiaccio, oltre 60 editori – di quelli comunemente definiti medio-piccoli – saranno protagonisti di una manifestazione che suona come un inno alla capacità di sopravvivere, resistendo, in un mondo sempre più unilaterale.

Tre giorni ricchi di incontri e dibattiti con scrittori, filosofi, storici, giornalisti, per continuare ad affermare che non esiste la Cultura, quella che ci viene calata dall’alto come verità indiscussa, ma le culture, quelle coltivate con dedizione e attenzione, ascolto del circostante e cura dei particolari, in maniera sempre poco allineata, ma coerente.

Sono fiera del fatto che Città del Sole edizioni, con la mia Serafina e la mia Jeanne, sia già lì. Un po’ invidiosa del fatto di non poter esserci anch’io.

BELLISSIMA – Libri e cultura indipendente

Milano, Palazzo del Ghiaccio, 18 – 20 marzo 2016

 

Dipingere il silenzio Vilhelm Hammershøi

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Originally posted on RIFLESSIONI QUASI ANALITICHE:
? Vilhelm Hammershøi Il pittore delle stanze vuote, del fluire silenzioso della vita, dello scorrere malinconico e inesorabile del tempo, dal mistero di una porta aperta, di una finestra, di un angolo di luce fredda, di una figura ritratta rigorosamente di spalle. Immagini forti di solitudine, di angoscia esistenziale,…

Noi, libere di pedalare

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Ci siamo assuefatti a una società che procede per immagini. La velocità delle informazioni, i  140 caratteri di twitter, gli scatti di instagram, i link di facebook, le immagini flash della tv. Ci siamo abituati a ragionare per impulsi, per associazioni istantanee e il rischio di giungere a una linea di pensiero semplicistica e stereotipata diventa elevato. Se disimpariamo ad approfondire e a immaginare rischiamo di inflazionare tutto, dimenticando la vera essenza che ci rende umani.

Così il corpo di un bambino riverso su una spiaggia suscita tutta la nostra pietà, ma l’immagine sparata a raffica e condivisa all’infinito ci sta un attimo a diventare piatta. E noi ci stiamo anche meno di un attimo a ritenere che si tratta di una cosa lontana, come se fosse un fermo immagine, senza niente dietro.

Ugualmente, una figura col velo integrale ci dice che siamo di fronte a una donna che vive la limitazione dei propri diritti. Ma forse, come riflesso immediato, ci fermiamo al diritto di mostrare il proprio volto, perché è questo ciò che l’immagine ci trasmette, e noi, forse, stiamo perdendo la capacità di andare oltre.

E invece c’è tanto altro. Una donna musulmana spesso non ha il diritto di andare in bicicletta, per esempio. Se lo fa, offende il senso del pudore, della decenza e, paradossalmente, della dignità della donna stessa. Peccato che a sostenerlo e pensarlo non siano le donne, ma i loro uomini. Ogni donna è libera di non andare in bicicletta, se non vuole. Semplicemente non le può essere imposto.

E non ne faccio una questione di religione. E’ una questione di autodeterminazione violata, e purtroppo non riguarda solo i musulmani. L’aberrazione ci fa fermare e scandalizzare, soprattutto se viene da una cultura altra dalla nostra. Tuttavia tolleriamo i padri tradizionali italiani che, per tutelare e proteggere le proprie figlie femmine, concedono loro diritti affievoliti: magari devono rientrare a casa più presto dei loro fratelli, non possono viaggiare da sole, certo non possono avere la stessa libertà sessuale di un figlio maschio, che viene accettata e spesso vissuta con orgoglio.

Intanto, se le donne musulmane non possono andare in bicicletta, vederle pedalare è una boccata di speranza. Specialmente se pedalano insieme, unite tra loro e con tutte le donne che vorranno partecipare. Accadrà domani a Milano, grazie all’iniziativa “Noi, libere di pedalare” promossa dalla scrittrice  Sumaya Abdel Qatar. Domani, dalle 14,30, le donne percorreranno in bicicletta 8 chilometri, da via Padova a Porta Venezia. Otto. Come otto chilometri. E come otto marzo.

Donna, Felicia

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Felicia Bartolotta Impastato

Quanto sia storicamente vera la data dell’otto marzo nella sua origine poco importa. Forse non fu l’otto marzo del 1848 che delle manifestanti americane furono caricate dalla polizia; e nemmeno fu l’otto marzo del 1908 che centinaia di donne morirono nell’incendio di una fabbrica; e neppure fu l’otto marzo del 1917 che delle donne russe manifestarono contro la guerra.                                                                                                                   Se niente di tutto questo accadde davvero l’otto marzo, da qualche parte del mondo accadde, questo e chissà quanto altro ancora, in un giorno qualsiasi degli anni passati. Le donne hanno dovuto lottare talmente tanto che una sola data non basta. E nemmeno importa se davvero la data fu scelta a tavolino da Lenin. Importa che questa data sia, più che una festa o una celebrazione, un simbolo. il simbolo di tutte le donne che hanno saputo tenere alta la testa, senza prevaricare ma senza essere prevaricate.
Un simbolo l’otto marzo, un simbolo Felicia Bartolotta Impastato, con il suo coraggio, la sua dignità, la sua semplice, splendida capacità di guardare in faccia la realtà e provare a cambiarla.
Per questo decido di onorare questo giorno condividendo e facendo mie le parole usate da Pino Maniaci oggi su Facebook:
“Desidero celebrare questo 8 marzo attraverso il ricordo di Felicia Impastato, una Donna che ha saputo dare prova di straordinario coraggio e determinazione anche davanti alla tragica perdita di un figlio, ucciso perché aveva deciso di seguire la strada della giustizia e della lotta alla mafia”.

Il più bel rametto di mimose

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ritratto di donna triste Ernst Ludwig Kirchner

ritratto di donna triste –  Ernst Ludwig Kirchner

 

Ma è proprio necessario celebrare le donne? E se sì, come si celebrano?
Forse con gesti di galanteria, che per alcune magari arrivano dopo giorni e giorni di silenzi, di rancori, se non di soprusi. Oppure con inviti a cena, che magari seguono affermazioni fatte al bar con gli amici del tipo: “Almeno stasera la faccio uscire, è la sua festa, così poi non rompe”. O magari con un bel regalo, che so, una lavatrice nuova, proprio quella che lei desidera da tanto tempo.
Sembrerà strano, ma non mi sto inventando niente; quelle che ho appena descritto sono situazioni o scene a cui mi è davvero capitato di assistere.
Ma ho provato la tristezza maggiore in questi giorni, quando mi è accaduto di vedere passare in TV la pubblicità dei prodotti più disparati legati alla festa della donna, da offerte telefoniche ad automobili, per esempio. Ho trovato questo  modello di marketing piuttosto squallido, ancora più squallido – oserei dire – degli ottomarzi trascorsi tra cene gaudenti e spogliarelli vari.
Si è detto ormai fin troppe volte che la festa della donna è un’altra cosa, che “otto marzo tutto l’anno”, che “commemorazione e non festa” e “meno mimose e più rispetto”. Sarebbe bene, come accade per tutte le cose, avere un giorno per ricordare e un anno intero per vivere e per riflettere.
Io amo le donne che sanno essere autentiche, le amo esattamente come amo tutti gli esseri umani che sanno autenticamente esistere ed esprimersi. Amo le donne che si raccontano e amo raccontare di donne. Soprattutto quelle dimenticate, perché mi sembra di restituire donne.pngloro una forma di dignità e di riscatto. Serafina e Jeanne ne sono un esempio.
Amo, infine, il ricordo di una donna in particolare: una sconosciuta ragazza in bicicletta che, l’otto marzo di tanti anni fa, mi consegnò un rametto di mimose.
“Le dispiace  se gliele regalo?” mi disse. “Mi sono state donate poco fa, le ho portate un po’ in giro e adesso mi piace l’idea che cambino mano, che passino di donna in donna”.
Ecco, questo è per me l’otto marzo: Serafina, Jeannette e un rametto di mimosa che passa di donna in donna.