Alla fine l’ho fatto. In questi giorni ho più volte pensato che spesso volere è potere. Spesso, se non sempre addirittura. Avevo promesso a me stessa che sarei andata a trovare Jeanne Hébuterne, nella sua Parigi. E l’ho fatto. Da brava bastian contraria quale sono, prima ho scritto di lei e poi sono andata a visitare i suoi luoghi. Ho così potuto provare la straordinaria sensazione di riandare su percorsi già fatti, visitando luoghi che in realtà non avevo mai visto prima.
Per raggiungere il mio obiettivo ho dovuto fare e affrontare cose che non avevo mai fatto e affrontato e ho scoperto in me una naturalezza che non avrei mai immaginato. Potenza della determinazione.
Sono partita con la migliore compagnia che potessi desiderare, un’amica che ha visto nascere in me l’interesse per la piccola Jeannette, che ha seguito il mio percorso mentale ed emozionale condividendolo, che per prima ha letto le bozze del libro quando ancora libro non era. Un’amica che, come me, si è innamorata della silenziosa e schiva ragazza parigina vissuta un secolo fa.
Abbiamo scelto Montparnasse come luogo di residenza del nostro fugace viaggio. Non a caso, ovviamente. A Montparnasse si è sviluppata la breve vita di Jeanne, lì ha studiato pittura, lì ha incontrato Modigliani, lì è andata a vivere con lui. Non molto distante – nel Quartiere latino, alle spalle del Pantheon – Jeanne ha abitato con i genitori e con il fratello, in quella stessa casa che l’ha infine vista porre termine ai suoi giorni. Proprio dal luogo che, come in un circolo, ha costituito l’inizio e la fine di questa storia disperata noi abbiamo iniziato il nostro percorso: Rue Amyot.
Abbiamo girato tanto prima di trovare la strada. Avevo lasciato la mappa di Parigi in albergo – chissà che significati reconditi si possono attribuire a certe dimenticanze! – ed eravamo senza connessione internet. I parigini sono di una gentilezza disarmante, disponibili a dare informazioni dettagliatissime, ma nessuno conosceva rue Amyot.
Povera Jeanne, dimenticata da Parigi e dal mondo.
Sentivo che eravamo vicine, girando incrociavamo con lo sguardo l’imponenza del Pantheon, attraversavamo strade che sembravano tutte uguali. All’improvviso, a un incrocio, la targa su un muro: Rue Amyot. Mi sono voltata a guardare la mia amica; aveva le lacrime agli occhi, esattamente come me. Ci sono emozioni apparentemente inspiegabili… Camminare sulle strade di Jeanne, raggiungere quella strada, fermarsi a osservare quelle finestre…
“Jeanne si guarda attorno, posa lo sguardo sulle sue consuete, tranquille, amate cose. Su una cassapanca è poggiato il violino, ben riposto nella sua custodia. Sul tavolo
i libri di russo che ha da poco iniziato a studiare; accanto, la ciotola con le pietre che si diletta a impilare, per farne collane. Ci sono le tende alla finestra, c’è un calore confortante e, sparsi un po’ dappertutto, gli strumenti dell’arte che sta scoprendo di amare: la pittura. Non c’è sofferenza in ciò che la circonda”.
Accadeva tutto in quella casa al quinto piano, le sue ore felici da bambina, i suoi sogni, le sue speranze. Ma anche i suoi dissapori con il padre, con quell’uomo severo che mal tollerava l’amore della sua figliola per quell’artista da strapazzo, italiano, ebreo, senza dimora fissa e senza reddito, che chissà che cosa mandava giù oltre all’alcool, che forse era anche malato.
Alzo gli occhi alle finestre e immagino Jeanne che si prepara per andare all’Accademia, la cartella dei disegni sotto braccio.
Alzo gli occhi alle finestre e vedo Jeanne che chiude dietro di sé la porta di casa, per trasferirsi definitivamente in rue de la Grande Chaumiere, insieme al suo Dedo, e contro tutti.
Alzo gli occhi alle finestre e vedo un cielo nero di gennaio, e Jeanne ritta sul davanzale.
“Jeannette, quindi, in questo momento terribile viene riaccolta a casa. Non sappiamo che cosa accadde dentro quell’abitazione di rue Amyot, n. 8 bis. Non sappiamo che cosa i quattro membri della famiglia si dissero. Sospettiamo che Jeanne possa aver reso noti i suoi intendimenti, perché di fatto quando la ragazza venne messa a letto si pose a vegliarla suo fratello. Ma Jeanne era tenace e rimase tale fino all’ultimo. Aspettò pazientemente che André si addormentasse e all’alba aprì la finestra e si lasciò andare nel vuoto.
Di schiena.
Erano le tre del mattino del 26 gennaio 1920.”
Abbasso gli occhi sul selciato e la piccola Jeannette è lì, ormai immobile, una gamba spezzata, un bambino in grembo che, incolpevole, è volato con lei.
Il portone si apre e ne escono due ragazzi. La mia amica li blocca. “Excusez-moi, c’est la maison de Jeanne Hébuterne?” chiedo con il mio stentatissimo francese.
“La jeune fille qui s’est jetèe?” Risponde uno di loro. “Oui, cela”. E sorride.
Restiamo ancora un po’ lì, ognuna di noi due a sussurrare a proprio modo una preghiera. Poi piano piano andiamo via, con riluttanza ma anche con la consolazione di aver trovato qualcuno per cui la nostra Jeannette non sia del tutto sconosciuta.
Il viaggio continua.