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Archivio dell'autore: Anna Burgio

Fiore di fico d’india

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“Avrei dovuto coltivarti”, disse lei.
“Ma non sono una pianta”, rispose lui.
“Lo sei, sei un fiore di fico d’india. Avrei dovuto coltivarti e maneggiarti con cura”.

Non c’è disaccordo nel cielo

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Chi mi conosce ormai sa fin troppo bene quanto io straveda per Vinicio Capossela, soprattutto per quello un po’ più datato. Il fatto è che io considero Capossela un po’ come una cornice concentrica. Nel suo essere artista poliedrico, eclettico, vulcanico e raffinatamente colto, risuona la traccia di numerose citazioni più o meno evidenti, riviste, rivisitate e rielaborate nel suo personalissimo stile. Per me è come un filo a spirale che seguo di riferimento in riferimento, è come un bussare alle persiane di visioni, per dirla pescando sempre da lui e dalle sue parole, in questo caso quelle di Camera a sud. È un richiamo a culture e suggestioni di un più o meno recente passato che si mescolano, raccontandoci che dall’insieme delle parti migliori delle differenze nasce sempre qualcosa di buono.
E allora sono in tanti a essere scomodati e riportati in veste nuova al tempo presente, da Oscar Wilde a Herman Melville, da Joseph Conrad a Luis-Fredinand Cèline, da Omero a Dante.
In Non c’è disaccordo nel cielo (Da solo, 2008) non c’è soltanto un riferimento o una citazione, ma la vera e propria riproposizione della parte musicale e della sostanza del testo di un inno del 1914, There’s no disappointment in Heaven di Frederick Martin Lehman.

Non c’è disaccordo nel cielo
né nuvole gonfie o mistero
né pacchi né stupri né soglie
né stanze svuotate d’addio

Solo tutte le lacrime avute
quando siamo stati migliori
e la grazia e l’oscuro segreto
ci scrosta nell’oscurità
A volte non vedo nel cielo
che nuvole gonfie e mistero
e salendo nel vapore leggero
altro non vedo e non so
Né anime bianche né salmi
che cantino gloria con noi
né vecchi compagni né amanti
che dividano il cielo con noi

Così resto solo col cielo
e altro non vedo e non so
ma se tutto è nascosto nel cielo
al cielo io ritornerò

Nella traduzione di Capossela la sacralità del testo si è trasformata in una sorta di bellissima, struggente  preghiera laica, in cui il cielo, che tutto vede e tutto accoglie, diventa il contenitore infinito e ultimo della nostra esistenza. E, già per ciò solo, immensa consolazione.
Ecco, questa è una canzone che ha il potere di farmi riconciliare con il mondo. Anche quando la giornata non è andata esattamente come avrei voluto, quando la miseria umana sembra prendermi a pugni e imbrattarmi di lordura pouzzolente, mi ricordo di questo testo e il cielo di Capossela mi viene in aiuto. Non è soltanto il cielo che sarà disposto ad accoglierci in una dimensione senza dolori o minacce quando non ci saremo più, in contrapposizione alla vita che sa essere anche piuttosto meschina. È il cielo che ogni giorno è già e sempre sopra di noi, noi che siamo qui vivi e vegeti e che spesso dimentichiamo di alzare gli occhi e, di fronte a tanto infinito, ridimensionare le nostre umane vicende.
Se siamo anime vaganti, abbiamo forse perso la capacità di guardare in alto e di guardarci intorno, e fare del nostro vagare – che può significare incontro, scambio, condivisione e contaminazione  – pura ricchezza. Potremmo essere più ricchi, se solo non ci scrutassimo in cagnesco  aspettandoci principalmente il peggio l’uno  dall’altro, se solo ci ricordassimo che abbiamo in comune un’epoca, nella quale ci è capitato di nascere, e poco più.  Se è un caso il condividere gli stessi anni, non è un caso rendere questi anni un piccolo o grande inferno. Questo dipende da noi.
Il cielo di Capossela è dunque il cielo che mi piace, anche con le nuvole gonfie e il mistero, è il cielo che mi dice che non c’è disaccordo in me.  Non è disimpegno o disinteresse per ciò che accade nel mondo, più o meno vicino. È semplicemente voglia e necessità di armonia. E lo sa il cielo quanto un po’ di armonia in più farebbe bene a tutti quanti.
Per ora questo può bastare.
Altro non vedo e non so.

Uno strano concetto di beatitudine

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camille claudel - La fortune

Camille Claudel – La fortune, 1902, 1905

Quando, ormai tanti anni  fa, mi ritrovai in ospedale per un nodulo al seno che si riteneva benigno, feci un incontro che non ho mai dimenticato e che mi servì per cambiare quasi definitivamente una modalità di pensiero che fino ad allora mi aveva contraddistinto. C’era un intervento programmato, io mi ero presentata con animo sereno per quello che si prospettava come un taglietto da niente. Ad aspettare assieme a me che si definissero le procedure per il ricovero c’era una donna di mezza età, l’aria sciupata e lo sguardo triste. Raccontò che quello a cui si doveva sottoporre era il secondo intervento per un tumore al seno, poiché il primo, effettutato presso una clinica privata, era stato fatto male e aveva causato più danni che altro. Provai una gran pena per quella donna. Il cancro era allora per me la malattia che non perdona, la sola parola indicava una condanna a morte certa. Di conseguenza, con gli occhi del pregiudizio, vidi lei spacciata mentre io mi specchiai nelle parole di Lucrezio nel De rerum natura:

È dolce, quando i venti sconvolgono le distese del vasto mare
guardare da terra il grande travaglio di altri;
non perché l’altrui  tormento procuri giocondo diletto,
bensì perché t’allieta vedere da quali affanni sei immune.

 

Seaham-Harbour-contea-di-Durham- dal web

Beata me, pensavo.
E pensando sbagliavo.
Mi svegliai dall’intervento con la diagnosi di un cancro tanto nascosto quanto traditore, che avrebbe determinato un calvario dal quale sono uscita viva, per mia fortuna, ma con ferite da campo di battaglia. Dopo avere superato la sorpresa e lo sgomento, ripensai a quella donna e al mio sentimento di compianto, quando ancora non sapevo che io ero già da compiangere, almeno tanto quanto lei.
Da allora considero la beatitudine un concetto estremamente relativo, tanto quanto l’invidia che ne può derivare, anche quella considerata benevola. Niente dura per sempre, la buona come la cattiva sorte. E la buona sorte altrui non va vissuta con sentimenti di invidia o gelosia, perchè nessuno può mai dire che cosa ci riserva il futuro, e quanto o quando le rive calme di chi viene considerato beato possano essere sommerse da travagli.

Giotto - Invidia

Giotto – Invidia, 1306 circa

Mi fermo a fare queste considerazioni anche perchè il  “Beata tu” è stata una presenza costante nella mia vita, essendo una locuzione usata quasi per abitudine da una persona che conosco praticamente da sempre.
“Beata tu…”
Parole dette un po’ strascicando, con una cantilena che ne accentua il significato, consegnando loro una pregnanza che altrimenti non avrebbero. Il commento può anche essere seguito da un “Io invece…” espresso con aria di rammarico per tutto ciò che l’altro vorrebbe fare o avere di similare e che invece non fa o non ha. L’aggiunta non è automatica, ma bastano già le prime due parole “Beata tu…” a resuscitare in me un senso di fastidio che viene da molto lontano. 
Senza scomodare le beatitudini evangeliche, bisogna forse fermarsi a considerare che lo stato di beatitudine va in qualche modo conquistato, piuttosto che aspettarlo come un colpo di fortuna appetibile e agognato, e quindi per alcuni invidiabile. 
A me, che mi sono sentita beata e non lo ero, adesso piace esserlo senza sentirmici.
Questo tipo di beatitudine, esattamente come la felicità, è un attimo ed è strettamente personale, è contentezza per qualcosa che ci capita ma anche per ciò che realizziamo e che ci rende fieri. Non è invidiabile. Tutt’al più augurabile, quando si vuole veramente bene.

 

El pintor y sus toros

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Ce Smile – El Pintor y sus toros, Ridyn/Books, 2019

La storia che sto per raccontare prende le mosse da lontano, in senso sia temporale che spaziale. È la storia di due mondi che ho scoperto in parte paralleli, con un denominatore comune che si chiama passione. È una storia strana, fatta di sorprese, di piacevoli emozioni, di circostanze particolari, di viaggi e di premonizioni, e di amore. E’ una storia che unisce l’Italia all’Argentina, e che io sconoscevo fino a pochi mesi fa.
Nel febbraio del 2016 è uscito per Città del Sole Edizioni il mio libro Di Schiena – Jeanne Hébuterne Senza Modigliani.
La figura dell’ultima compagna del pittore – anche lei pittrice e morta suicida a due giorni di distanza da lui – aveva cominciato ad appassionarmi già da qualche anno fino a diventare fonte di studi continui e infine un libro, in cui ho cercato di raccontare le sua breve vita da un punto di vista particolare. Solo alla fine di numerose ricerche e dopo la stesura e pubblicazione del libro, ho deciso di andare a Parigi, a ripercorre le orme della piccola e sfortunata Jeannette. In quella circostanza Cristina, la mia più cara amica e affettuosa compagna anche in questa avventura, volle abbandonare una copia del libro su una panchina dei Giardini del Lussemburgo – luogo che la Hébuterne nella sua giovinezza attraversava ogni giorno – quasi per lasciare un segno, come un messaggio in una bottiglia.  Tante volte, scherzando, abbiamo poi immaginato che qualcuno un giorno avrebbe magari bussato a una delle nostre porte per parlarci di Jeanne.
In realtà non abbiamo mai conosciuto il destino del libro lasciato andare, ma davvero qualcuno ha bussato, prendendo una strada diversa.
Lo scorso mese di settembre sono stata contattata su Instragram da una ragazza argentina. In quella circostanza ho scoperto che la giovane donna già un anno prima mi aveva mandato un messaggio privato, che io – come sempre incostante e distratta sui social – non avevo visto.
Lei è Ce Smile, al secolo Maria Cecilia Contarino, è psicologa e fotografa e mi ha contattato per dirmi che il mio libro è stato fonte di ispirazione per la stesura del suo, El pintor y sus toros. Ho così scoperto che, mentre io in questa parte di mondo mi intrattenevo nelle mie consuete vicende, in un posto lontanissimo qualcuno stava scrivendo di me nell’introduzione del suo testo. È stato un dono, che è diventato ancora più grande quando Ce Smile ha voluto inviarmi una copia della sua opera. Il libro ha viaggiato da Buenos Aires alla Sicilia per più di un mese fino a quando, finalmente, è giunto tra le mie mani. Mi sono cimentata nella traduzione, aiutandomi ovviamente con Google translate, ma scoprendo, tra le altre cose, che alla fine lo spagnolo non è poi così difficile da comprendere.

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E tuttavia, più di ogni altra cosa, ho scoperto Diego. Diego Gonzalez, chitarrista e pittore, racconta a Ce Smile la sua vita e il suo incontro con i tori, che incontro non è, trattandosi piuttosto di acquisizione della consapevolezza di qualcosa che c’è sempre stato.
Se dovessi descrivere con due soli termini ciò che mi ha suscitato il libro nella sua interezza – parole scritte, dipinti, fotografie –  userei innanzitutto il termine forza.

Ovviamente la forza dei tori, indomiti ma in qualche modo teneri, e la forza delle loro madri, nutrici e protettive.
Ma leggendo ho in parte ritrovato la storia della mia stessa vita e della forza che l’ha accompagnata: un evento drammatico riguardante la propria salute, la determinazione nella risalita e la conseguente rinascita con lo sviluppo di una passione nuova ma antica. Qualcosa che assume la forza e l’irruenza di un’ossessione, di quelle belle, di quelle che ti monopolizzano i pensieri e ti fanno sentire la vitalità dei giorni. Questo è stata per me Serafina prima e Jeanne Hèbuterne poi, questo sono i tori per Diego Gonzalez. Meravigliosi strumenti per tradurre in creatività qualcosa che si è certi di avere dentro.
Infine la forza del viaggio, per me  e Cristina a Parigi e per Diego e Cecilia in Andalusia, a Gerena e Siviglia: viaggio affrontato con la volontà ferrea di visitare luoghi non tanto per scoprirli quanto per ottenere conferme di qualcosa che si sapeva già, una sorta di premonizione, per riprendere un termine che Diego Gonzalez usa nel libro.
L’altra parola che emerge spontanea è colore. El pintor y sus toros è una tempesta di colori, il viola che acquista un significato molto particolare insieme a quelli caldi della Spagna, tanto che  anche le foto in bianco e nero di Ce smile sembrano integrarsi con le altre e soprattutto con i dipinti di Diego; tra l’altro chi volesse avere una diretta conoscenza della produzione del pittore  può trovare qui  il catalogo.

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Opera di Diego Gonzalez

Il libro però contiene riflessioni su tanto altro: il peso delle esperienze infantili, i rapporti interpersonali, il modo di essere e di porsi e il concetto di amore –  per il proprio compagno, per la propria arte, per la vita in genere – che ritengo sia il messaggio intrinseco che attraversa l’intero testo.
Da brava psicologa, Cecilia è riuscita a tessere le fila della storia di quello che è anche il suo compagno di vita ricostruendo i nessi e i rapporti di causa ed effetto e mantenendo sempre uno sguardo e un tocco lievi, che sanno essere carichi di passione ma anche dolci e sereni come il suo sorriso.
Del resto quello smile del suo nome d’arte mi sembra quasi una dichiarazione d’intenti e, assieme alle circostanze che ci hanno fatto incontrare, mi fa dire, una volta tanto, che la vita sa essere meravigliosa.

Io non ti vedo

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Magritte, L’histoire centrale, 1928

Io non ti vedo.
So bene che tu sei qui, che sei dietro
una parete fragile
di mattone e di calce, alla portata
della mia voce, se io ti chiamassi.
Ma io non ti chiamerò.
Ti chiamerò domani,
quando non più vedendoti,
penserò che tu sia qui vicino,
al mio fianco,
e che basti oggi la voce
che ieri non volli dare.
Domani, quando tu invece
sarai lontana, al di là
di una parete fragile
di venti, di cieli e d’anni.

Pedro Salinas, dalla raccolta Presagios,  1923

Nonostante l’opera considerata il capolavoro di Salinas sia La voce a te dovuta, del 1933, ho preferito riportare qui dei versi appartenenti all’opera prima del poeta.

 

Necrologio dei buoni propositi ed elogio dei desideri


Oscar Wilde

I buoni propositi sono inutili tentativi di interferire nelle leggi scientifiche. Nascono dalla pura vanità e il loro risultato è il nulla assoluto. Ogni tanto ci regalano una di quelle emozioni voluttuose e sterili che hanno un certo fascino per i deboli: è tutto quello che se ne può dire. Sono semplicemente assegni che gli uomini emettono su una banca dove non hanno il conto corrente”.
Oscar Wilde – da Il ritratto di Dorian Gray

Ancora una volta è arrivato il 31 dicembre. Ancora un anno che se ne va, un altro che arriva. Torna, come ogni anno, la consuetudine che risale a tempi immemorabili e che certamente non è solo la mia. Ogni 31 dicembre ho ceduto alla tentazione di fare bilanci e di esprimere i miei buoni propositi per l’anno che verrà.
In questi giorni, invece, per la prima volta la tentazione forte è di farla finita con quella che è ormai diventata una tradizione.
Il motivo non è legato al fatto che, come viene spesso ricordato in questo casi, la fine di un anno e l’inizio di un  altro siano un passaggio esclusivamente convenzionale, perchè – e lo sappiamo bene – il tempo non esiste, tutto è relativo, ogni momento è buono per fare cose, etc. etc.
Le mie considerazioni traggono invece le mosse dalle parole di Oscar Wilde, per poi seguire un percorso autonomo.
Saranno leggi scientifiche, come scrive Wilde, sarà il destino, una congiuntura astrale o un progetto divino, sta di fatto che una parte dei nostri intendimenti non dipende da noi e immaginare scelte e azioni future può veramente risultare inutile.
A questo aggiungo un’ulteriore riflessione: i bilanci e i buoni propositi sono, a ben vedere, sguardi lunghi e un po’ obliqui sul passato e sul futuro. Difficilmente usciamo dai bilanci – sugli eventi passati, sull’anno che sta per finire, su epoche intere già trascorse e finite – con la soddisfazione piena di chi è contento di come siano andate le cose. Ma se le cose non sono andate benissimo ce ne dovremmo già essere accorti in corso d’opera: che senso ha, allora, indugiare con analisi che sanno tanto di autolesionismo? Che altro possiamo imparare da esperienze ormai concluse?
I buoni propositi, dal canto loro, rischiano di essere strettamente connessi al procrastinare. Chi agisce non ha grande bisogno di esprimere propositi, non si propone le cose, semplicemente le fa, se non le può fare le organizza, le programma, le calendarizza, che è come dire che le sta già facendo. Non aspetta il prossimo lunedì, il primo del mese o il nuovo anno.
Mangiare meglio e più sano, fare attività fisica, smettere di fumare, essere più tolleranti, essere più produttivi, non procrastinare: queste alcune delle tante buone intenzioni che compongono i nostri periodici elenchi. E nel frattempo si trascorre il tempo procrastinando, perchè la buona intenzione è un pagherò che non costa nulla, che non comporta denuncia o querela, condanna o pignoramento in caso di mancata solvenza.  Ancor più se si considera che il proposito, o l’intenzione, non è una promessa, non ci si impegna con un’entità altra da se stessi; di conseguenza scema la necessità di rispettare l’impegno, degrada la solennità.

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Luigi Pintor

La diceria che di intenzioni è lastricato l’inferno è maligna. Deludenti ed effimeri sono gli esiti. I buoni proponimenti sono invece un polline che non fiorisce ma profuma l’aria.
Luigi Pintor, La signora Kirchgessner

Eppure ha ragione Pintor. Triste sarebbe vivere senza aspettative per il futuro, senza il profumo della speranza e dell’attesa. Ma per quello ci sono i desideri. E non si tratta di una mera distizione linguistica.
Proposito deriva dal latino pro – ponĕre, significa dunque ciò che è posto avanti ed è di conseguenza un termine che reca con sè la forza dell’intendimento, della determinazione di raggiungimento dello scopo. Se non fosse per tutti i legittimi impedimenti – esterni e interni alla volontà umana – di cui abbiamo detto.
Per Desiderio la questione si fa più complessa. Se etimologicamente il termine deriva indubbiamente da de – sidus, bisogna comprendere il significato che in questo caso specifico i latini davano a de. Considerando la particella come privativa, desiderio diventa assenza di stelle, intese come strumento divinatorio, e questa è senza dubbio la definizione più diffusa e plausibile. Tuttavia, nel lontano 2003, al Festival della Filosofia di Modena il professor Umberto Galimberti fece risalire l’origine della parola al De Bello Gallico, nel quale Giulio Cesare avrebbe scritto dei desiderantes, cioè i soldati sopravvissuti alla battaglia che aspettano sotto le stelle l’arrivo dei compagni. Peccato che, a quanto pare, la citazione esatta sia difficile da reperire all’interno dell’opera, tanto che molti sostengono che non esista affatto. Peccato davvero, perché considero questa variante affascinante.
La diversa interpretazione dà comunque la giusta rilevanza alla doppia accezione che il termine può assumere: da un lato il senso della mancanza di qualcosa che si vorrebbe avere, dall’altro l’auspicio del suo ottenimento. In ogni caso  in funzione delle stelle che, con cielo sereno o coperte da nubi, da sempre accompagnano il nostro cammino.
Per questi motivi trovo che avere tanti desideri per l’anno che sta per arrivare sia molto meno frustante rispetto ai buoni propositi: con questi ultimi rischiamo di fare investimenti in perdita, mentre coi primi manteniamo uno sguardo ineluttabile sul futuro senza per questo privarci di obiettivi concreti per fare in modo che essi si realizzino.

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Io desidero con tutto il cuore che il 2020 sia denso di cose buone, le aspetto tutte, con la fiducia nella mia volontà e con con l’incertezza propria dei sogni e dei desideri. E, visto che abbiamo parlato di stelle, quasi quasi do anche un’occhiata all’oroscopo.

 

La tua mano


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La Cattedrale – Auguste Rodin

Guarda, non chiedo molto,
solamente la tua mano, tenerla
come una piccola rana che così dorme contenta.
Io ho bisogno di questa porta che aprivi
perché vi entrassi, nel tuo mondo, questo pezzetto
di zucchero verde, di tonda allegria.
Non mi presti la mano questa notte
di fine d’anno, di civette rauche?
Tu per ragioni tecniche non puoi. Allora
io la tesso nell’aria, ordendo ogni dito,
e la pesca setosa della palma
e il dorso, questo paese d’alberi azzurri.
Così la prendo così la sostengo, come
se da ciò dipendesse
moltissimo del mondo,
il succedersi delle stagioni,
il canto dei galli, l’amore degli uomini.

Julio Cortázar

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Julio Cortázar

Leggenda di Natale


Perchè non è vero che a Natale siamo tutti più buoni.

 

F. De Andrè

Fabrizio De Andrè

Parlavi alla luna giocavi coi fiori
Avevi l’età che non porta dolori
E il vento era un mago, la rugiada una dea
Nel bosco incantato di ogni tua idea
Nel bosco incantato di ogni tua idea

E venne l’inverno che uccide il colore
E un babbo Natale che parlava d’amore
E d’oro e d’argento splendevano i doni
Ma gli occhi eran freddi e non erano buoni
Ma gli occhi eran freddi e non erano buoni

Coprì le tue spalle d’argento e di lana
Di pelle e smeraldi intrecciò una collana
E mentre incantata lo stavi a guardare
Dai piedi ai capelli ti volle baciare
Dai piedi ai capelli ti volle baciare

E adesso che gli altri ti chiamano dea
L’incanto è svanito da ogni tua idea
Ma ancora alla luna vorresti narrare
La storia d’un fiore appassito a Natale 
La storia d’un fiore appassito a Natale

 

Sono parole che si dicono

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”L’etimologia delle parole mi ha sempre affascinato e trovo che ci sia una grande spiegazione d’esistenza nello scavare in una lingua come quella italiana. Ho accolto con molta gioia di partecipare a questa giornata in un festival che ha come slogan ‘Le parole valgono’. Le parole valgono moltissimo, possono essere pietre, ma anche pane di cui nutrirsi”.

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Vinicio Capossela al Festival della lingua italiana – Lecco 4 – 6 ottobre 2019

Così ha detto Vinicio Capossela, lo scorso 5 ottobre, nel corso del suo intervento alla prima edizione del Festival della lingua italiana promosso da Treccani e dal Comune di Lecco.

La prima e più immediata considerazione, squisitamente personale, riguarda il fatto che adoro quest’uomo, e il suo dire mi dá conferma del motivo dell’adozione, oltre ovviamente alla musica.

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Dal film Palombella rossa

Mi fermo poi a riflettere sulll’ormai abusata importanza delle parole. Che le parole siano importanti oramai lo sappiamo tutti, credo che a ognuno di noi sia capitato di affermarlo almeno una volta nella vita, citando o no Nanni Moretti.

 

 

L’origine di “parola” ci riporta al greco παραβολή,  parabolè, fino al latino parabola e poi al latino medievale paràula. Il senso si ricollega dunque all’unione di  para, accantoballo, metto. La parola mette a confronto, riconduce al significato, spiega la realtà concreta e quella intangibile, comunica ciò che altrimenti sarebbe non comunicabile, è il tramite che consente agli uomini di confrontarsi e riconoscersi.

Certo che le parole sono importanti.

Eppure mi è accaduto, in questi ultimi tempi, di pensare che si tratta soltanto, di solito, di parole che si dicono. Ho ripensato a tutte le volte in cui ho attribuito l’importanza che ritenevo giusta alle parole pronunciate da qualcuno, tenendo a mente quelle parole, facendone magari insegnamento o monito, oppure garanzia di promessa, per poi scoprire che chi le aveva pronunciate – magari anche sul momento con la solennità di un rito – le aveva poi addirittura dimenticate, liquidando l’argomento con un “Sono parole che si dicono”.

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Ottone Rosai – Conversazione

 

Sono parole che si dicono, a volte con leggerezza. Ma c’è un momento per tutto, anche per la leggerezza, e non si possono spacciare per leggere parole che hanno avuto un peso fondamentale, come il peso dei sentimenti, delle azioni. O come il peso, croccante e profumato, del pane. Perché ha ragione Capossela, le parole possono essere pietre ma anche pane. E pane io desidero che continuino a essere. Per me.

Si chiamava anche Calogero e non voleva morire


Nel 1925 Porto Empedocle era un piccolo borgo marinaro. Niente a che vedere con la cittadina di adesso, fatta di palazzi e di frazioni che si dilatano e aumentano di numero a vista d’occhio. C’erano soltanto poche case poste a corona attorno alla curva che fa il mare, e soltanto campagna sulla collina che sovrasta la costa.
In un paesino così il 6 settembre del 1925 nacque un bambino che sarebbe stato conosciuto da tutti come Andrea, ma che si chiamava anche Calogero. Calogero, come il santo nero che protegge il paese espropriando nel culto e nella devozione il legittimo patrono, quel San Gerlando che fu vescovo della città di Agrigento. Calogero l’eremita, Calogero che si prodigava per i poveri, Calogero extracomunitario ante litteram sulle coste della Sicilia.
In quel nome, prima che in ogni altra cosa, io leggo tutta la sicilianità di Andrea Camilleri. Chiamarsi Calogero, tra gli abitanti di Porto Empedocle, rappresenta un marchio doc di origine certa: chi ha questo nome può provenire al massimo, se non direttamente dalla Marina, al limite da qualche paese del più stretto circondario. Camilleri era, dunque, siciliano e marinisi fino alla radica, come forse avrebbe detto lui, ma ha caratterizzato la sua vita e la sua scrittura – al pari di come, per altre strade, fece Leonardo Sciascia – dalla grande capacità di trasferire il microcosmo nel macrocosmo, di utilizzare il proprio personalissimo osservatorio come lente d’ingrandimento di una realtà che ci interessa tutti, proprio in quanto appartenenti al genere umano.

Camilleri se n’è andato poco prima di compiere 94 anni. Si tratta senza dubbio di un’età veneranda, di quelle che fanno dire a chi resta: “Beh, la sua vita se l’è fatta, è stata lunga e piena, non si può lamentare”.

Non ho mai compreso i ragionamenti che sottendono certe clausole assicurative quando, ad esempio, modificano i premi in base alla cosiddetta speranza di vita. Del resto, una persona giovane che muore desta sentimenti più tristi perché, si dice, aveva ancora tutta la vita davanti. Ma davvero il valore di un’esistenza si misura nei termini delle cose da fare in nuce? Non vi sono forse esistenze fatte di trascinamento, di vuoto, di indifferenza verso ogni bellezza, di inutilità dello stesso vivere? Si possono mettere su un piatto della bilancia esistenze così avendo come contrappeso solo la consistenza di un’età anagrafica avanzata? Questo mio dubbio rappresenta ovviamente un’iperbolica provocazione, ma davvero mi chiedo se non sbagliamo tutto nell’attribuire un sistema valoriale rigido a una sostanza così duttile e complessa quale è l’esistenza umana.

Mio padre ha in comune con Camilleri il luogo e l’anno di nascita. Quando ha saputo del suo ricovero in ospedale, in condizioni gravi, mi ha detto: “Mi dispiace come se fosse un mio parente stretto”. Ecco, i 94 del Camilleri uomo, prima ancora che artista, contavano quanto gli anni di un giovane e responsabile adulto che abbia, anche, il valore aggiunto del talento. Non solo talento di scrittura, ma anche di parola e di pensiero. Quando Camilleri parlava ascoltarlo era un incanto. La sua lucidità di pensiero, la limpidezza del suo dire che faceva sembrare di potergli leggere dentro, ce lo facevano sentire una persona cara ed emancipata da ogni età.

Al momento del ricovero anch’io, come mio padre e come tanti, ho provato una stretta al cuore. Poi c’è stato il silenzio. Mentre tutti aspettavamo l’imminente notizia, si sono susseguiti giorni e giorni durante i quali niente più si è saputo, anche in virtù della legittima richiesta di silenzio stampa da parte della famiglia.

Durante quei giorni mi sono chiesta se Camilleri sentisse e sapesse cosa stava accadendo. E mi sono ricordata delle sue tante considerazioni sulla morte: l’ineluttabilità, la dovuta messa in conto, la serenità della sua attesa. Eppure in quei lunghi giorni ho immaginato un Andrea Calogero ragazzaccio lucido e tenace.

Sapere che prima o poi si muore e accettarlo non significa desiderare di morire, neanche a 94 anni. E il mio personale Camilleri, quello a cui ho voluto dare pensieri e sentimenti immaginari, ha perso tempo a morire, ha ritardato il momento finché ha potuto perché, nonostante la sua vita se la fosse fatta, nonostante quella vita fosse stata densa e piena, di morire non ne voleva proprio sapere.